Fisichella il professore, Tatarella lo stratega, poi tutti i colonnelli del leader. Dissidenti, sopravvissuti e dimenticati. Trent’anni fa la svolta di Fiuggi, che per molti avversari non fu mai abbastanza
“Autorità nazionali e internazionali…”, la voce stentorea dell’officiante Domenico Fisichella piombò come un tuono per tacitare energicamente il cicaleccio nell’anfiteatro di Fiuggi, nota località termale riadattata a scenografia di un grande evento politico: basta indugiare, bisognava dare inizio alla cerimonia di purificazione della destra italiana. Era il “lavacro di Fiuggi” sul cui set esattamente trent’anni fa, il 27 gennaio del 1995 (il Giorno della Memoria non c’era ancora, altrimenti si sarebbe gridato alla profanazione), finì un mondo e dalle sue ceneri ne nacque un altro, molto più, per così dire, socialmente remunerativo di quello defunto. Qualcuno chiamò quell’evento, con spropositato richiamo omerico, “Fiuggeide”.
Finiva il mondo recintato e infetto dei fascisti e dei neofascisti, il rifugio degli esuli in Patria come li aveva definiti Marco Tarchi, il “polo escluso”, i reietti del Movimento sociale segregati ai margini dell’arco costituzionale che aveva retto l’Italia nata dalla Resistenza e che aveva fatto dei fascisti gli eterni sconfitti. “Autorità nazionali e internazionali…”: ora, annunciata da quella voce professorale forte e chiara dell’esimio Fisichella, nasceva invece Alleanza nazionale, il nuovo brand politico che regalava ai reietti il palcoscenico da primattori. Ma tutti gli altri, gli ospiti illustri e gli imbucati che fiutavano il vento e ci si mettevano a favore, i commentatori, i politici di professione, gli analisti, i giornalisti smaliziati e adusi alle passeggiate confidenziali lungo i corridoi del Transatlantico, tutti erano un po’ confusi e frastornati. Spaesati, un po’ increduli. Sì, certo, i missini erano più o meno conosciuti, almeno di vista (anche se qualche collega dal taccuino ancora intonso, sentendo il timbro tonitruante dell’officiante Fisichella, si guardava in giro e chiedeva disorientato e disarmato: “E mo’ questo chi è?”). Conosciuti vagamente sì. Ma “i fasci”, così li si bollava nell’arco costituzionale munito di tesserino vinaccia dell’Ordine dei giornalisti (nato con il fascismo e vabbè, come direbbe Michele Masneri), erano messi all’angolo, minoranza orgogliosamente identitaria ma ininfluente e ghettizzata. Un’accolita di reduci cresciuti in un partito con la fiamma tricolore che, per dire, aveva nel suo inno inaugurale non parole di festa e di rinascita, bensì parole di lutto e disperazione: “Siamo nati in un cupo tramonto…”.
“Autorità nazionali e internazionali…”. Annunciata dalla voce forte e chiara dell’esimio Fisichella, nasceva Alleanza nazionale
E ora (chi l’avrebbe detto soltanto qualche anno prima?) c’erano la autorità nazionali e internazionali ad ascoltare impettite e abbagliate dai riflettori del grande evento, con tutte le targhette “riservato” nelle prime file della platea, a mettersi disciplinatamente in silenzio, rispettose e solenni, per vedere Gianfranco Fini e i suoi seguaci diventare post-fascisti e abbandonare “la casa del padre”. Disse proprio così Fini: abbandonare la casa del padre. E gli incontentabili sospettosi dissero che era troppo poco, che insomma nemmeno il fragore di uno sbattimento di porte, che non bastava, che non c’era il ripudio, né la sconfessione delle proprie origini, né la radicalità di una separazione con l’esperienza complessiva del fascismo e del neofascismo. Ma gli incontentabili non si accontenteranno mai, e neanche adesso si stanno accontentando, del resto. “Autorità nazionali e internazionali…”. D’accordo, grazie dell’invito, ma che volevano esattamente questi, chi si credevano di essere, perché cambiavano nome e abbandonavano la casa del padre? Saranno sinceri? Dove volevano arrivare se nemmeno si accontentavano del miracoloso traguardo di ministeri e sottosegretariati? Chi erano? E’ per questo che erano tutti frastornati, giornalisti e commentatori consumati, e imbucati che volevano afferrare il vento.
Grazie dell’invito, ma che volevano esattamente questi, chi si credevano di essere? Saranno sinceri? Giornalisti e commentatori frastornati
Soltanto quattro anni prima, nel gennaio del 1991, nella Fiera di Rimini addobbata come nelle grandi occasioni della storia, noi cronisti vaganti nelle peripezie della politica fummo tutti un po’ meno frastornati quando il Pci spense definitivamente le insegne, abbassò le saracinesche e nella cerimonia riminese di purificazione, stavolta a sinistra, avrebbe finito per risorgere sotto l’ombra protettiva di una grande Quercia post-comunista. Ci conoscevamo tutti, “ciao Achille”, “ciao Claudio”, “ciao Massimo”, “ciao Walter”. Ci accontentammo tutti, mica eravamo lì come a Fiuggi per misurare in laboratorio il grado di radicalità della separazione, l’energia del ripudio, figurarsi della sconfessione. Il compito di noi giornalisti sembrava facile. I giochi erano fatti, oramai metabolizzati al termine di una vicenda congressuale che dalla Bolognina in poi aveva impiegato ben un anno e tre mesi per sancire tra le lacrime la chiusura della vecchia ditta minacciata dai detriti del muro di Berlino appena franato, e plasmare la nuova Cosa. Seguire i discorsi ufficiali certo. Seguire anche i compagni del No che in una angusta stanzetta laterale stavano scindendosi per dar vita a Rifondazione comunista, con a capo Sergio Garavini e Armando Cossutta, certo, anche questo. Ma, rinata la Quercia, sembrava che il lavoro fosse finito. Fatte le valigie. Saldati i conti degli alberghi. I computer – compresa la gigantesca cornetta telefonica che all’epoca ancora novecentesca bisognava premere con forza e a due mani sull’apparecchio per trasmettere il pezzo – rinfoderati nei pesanti borsoni. Ci toccava tornare alla Fiera oramai smontata giusto in tempo per assistere, in un residuo stanzone freddo e con i congressisti in cappotto e con i bagagli accanto, al noioso e scontato adempimento burocratico dell’elezione del nuovo segretario Achille Occhetto, con voto segreto. Banale disbrigo di una faccenda formale che clamorosamente non andò in porto. Sgomento. Dirigenti attoniti. Il non-ancora-segretario alla ricerca del bar interno per tirarsi un po’ su. E i giornalisti, che già pensavano come arrivare alla stazione, furono costretti, sigillata la sala stampa, a riprendersi d’emergenza una stanza al Grand Hotel di Fellini per scrivere il pezzo sulla Grande Sorpresa. Bisognava fare presto, questione di minuti se non si voleva perdere l’ultimo treno da Rimini per Roma con cambio a Falconara, e a un certo punto squillò il telefono nella mia camera. Era un collega di un’agenzia: “Scusa, posso venire a scrivere da te?”, “Certo, ma perché?”, “Perché nella stanza accanto stanno scopando da un’ora facendo un rumore bestiale e io non riesco a concentrarmi”. Unico brivido della routine professionale di Rimini.
“Autorità nazionali e internazionali…”. Eh, ma qui a Fiuggi era molto più difficile, solo il conforto di una buona acqua minerale autoctona. La tribù dei giornalisti era davvero confusa dall’irrompere prepotente dei nuovi arrivati. Gli “sdoganati” da Silvio Berlusconi, che poi gli ex missini in procinto di diventare aennini nemmeno accettavano la definizione sostenendo non senza ragione che casomai lo sdoganamento era stata opera degli elettori di Roma e Napoli mandando al ballottaggio Fini e Alessandra Mussolini come rispettivi sindaci, erano solo il secondo tempo dello spaesamento che stava segnando il passaggio anche antropologico tra Prima e Seconda Repubblica. L’anno prima si erano visti arrivare in Parlamento le truppe Publitalia e Fininvest, spillette e kit del candidato, precisini, elegantini, candidati dopo aver vinto una specie di concorso di bellezza. E ora questi di Fiuggi, un tempo scalcinati, ora potentissimi, dalle stalle alle stelle, alcuni con nomignoli assurdi e incomprensibili. “Er Pinguino”, chi sarà costui? “Er Pecora”, come si è guadagnato questa imbarazzante nomea? (Che poi non era nemmeno così tanto vero che non si conoscessero. Sotto il Raphael, a lanciar pietrisco e monetine a Craxi, tutti insieme: ecco dove si erano conosciuti missini, leghisti e reduci da un comizio di Occhetto a Piazza Navona).
“Autorità nazionali e internazionali…”. Ecco, il più sconosciuto era proprio Domenico Fisichella, politologo e docente dalla solida reputazione accademica, studioso del totalitarismo, frequentatore assiduo di un’edicola dei Parioli dove ogni giorno amava (con l’edicolante che un po’ si lamentava: “Eccolo puntuale come il Santo Natale”) gettarsi a capofitto sulle prime pagine dei quotidiani, mica aveva la mazzetta dei politici di professione. Un uomo che con il fascismo non aveva niente da spartire, un nazional-conservatore di destra attratto dalle liturgie dell’istituto monarchico, lo studioso che per primo aveva inventato la formula “alleanza nazionale” sia pur in assenza della A maiuscola. Emanava una compostezza professorale vagamente ancien régime. Una volta, nella campagna elettorale del ‘96, mi ritrovai in veste di giornalista in una trasmissione di Pialuisa Bianco accanto a Lucio Colletti, uno degli illustri esponenti di area liberal-democratica (con Marcello Pera, Piero Melograni, Saverio Vertone, Giorgio Rebuffa) chiamati a dare uno spessore culturale più massiccio ai quadri di Forza Italia. Mentre Fisichella parlava, a un certo punto Colletti sbiancò: “Ma dove sono finito? Questo è pure contro la Rivoluzione francese”. E del resto i giovani e meno giovani di An continueranno sino alla fine a chiamarlo “il Professore”, per rispetto e quasi soggezione, ma anche per segnare un tratto di estraneità persino antropologica. Una lontananza abissale di letture, anche.
Fisichella per primo aveva inventato la formula “alleanza nazionale”. “Questo è pure contro la Rivoluzione francese”, sbottava Colletti
Poi, decisivo, centrale, cruciale, l’ispiratore, il faro, insomma Giuseppe Tatarella, per tutti Pinuccio. Pugliese di Cerignola (terra di Di Vittorio), anima moderata del Msi e poi di An, ma dal respiro strategico. Amava che lo si chiamasse “ministro dell’Armonia”. Non si offendeva se qualcuno gli faceva notare la cravatta eternamente inzaccherata, un polsino sdrucito, un colletto un po’ ballonzolante. Abbandonavano la casa del padre, e lui era un po’ il padre sostitutivo, una guida, un monito per questi ragazzacci che ogni tanto bisognava rimettere in riga. Nella sala stampa di Fiuggi, quando entrava lui, persino i giornalisti ne avevano un po’ soggezione, chissà quali enigmi frullavano nella testa di quel cultore dell’armonia. E riempivano pagine e pagine dei loro taccuini, non comprendendo bene se quelle parole misteriose e allusive, dal tratto così meridionalmente saggio, nascondessero un clamoroso scoop o una semplice divagazione delibando una tazzina di caffè. Anche perché, con l’aria di dire “Qui si fa la Storia!”, ne entravano parecchi di sconosciuti in quella sala stampa con l’intento di rilasciare epocali dichiarazioni, peraltro per buona educazione sempre trascritte ma mai pubblicate. Tatarella, purtroppo, mancherà qualche anno dopo, poco più che sessantenne. E mancherà molto ad Alleanza nazionale, che infatti senza di lui non ritroverà più l’Armonia di un tempo.
Tatarella mancherà qualche anno dopo, poco più che sessantenne. E mancherà molto ad An, che infatti perse l’Armonia di un tempo
Poi c’erano gli altri, co-protagonisti assieme a Gianfranco Fini del Grande Lavacro di Fiuggi (“qui vicino, sugli Altipiani di Arcinazzo, ci fu il famoso comizio di Andreotti con la presenza del Maresciallo Graziani”, si sbilanciò un delegato, subito zittito da altri suoi colleghi che gli spiegavano in modo platealmente concitato che proprio non era il caso). Tutti da scoprire: erano pochi gli “msicologhi” che sapevano bene la storia di quel partito che stava per tirare le cuoia. C’era, figura centrale sebbene nell’ombra, Gennaro Malgieri, piccolo e tondo, uomo dalla cultura enciclopedica. Spirito beneventano dalla risata franca che ti spalanca il cuore, smentita vivente dello stereotipo del fascista con molti muscoli e poco cervello. Negli ultimi tempi è uscito dai radar, ma trent’anni fa Malgieri era il ghost writer ufficiale della svolta di Fiuggi. Nonché il primo ad inaugurare la moda post-fascista – ultimo e recentissimo interprete Alessandro Giuli – di santificare Antonio Gramsci nel Pantheon degli antenati della Destra. Era lui l’autore delle Tesi fondative della nuova An che contenevano spunti audaci e molto più coraggiosi di quelli avanzati, negli stessi anni, dai post-comunisti. Come questo che segue, decisamente temerario, ma che a sinistra si considera ancora insufficiente: “E’ giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”. Troppo poco, troppo poco, borbottavano i severi censori. Ma davvero: troppo poco?
C’era allora e ci sarà ancora più in alto fino ai vertici istituzionali dei nostri giorni Ignazio La Russa, al tempo ancora con il pizzetto nero come la pece e come quello di Italo Balbo, ancora non molto conosciuto nelle cronache dei giornalisti che piuttosto si chiedevano stupiti: “Ma non era il capo dei fascisti sanbabilini che menavano a Milano?”. E lo chiedevano stupiti perché, romanocentrici pre-Ztl, pensavano conformisticamente che i sanbabilini fossero identici ai loro equivalenti capitolini, fighetti ricconi e figli di papà come i pariolini con i Ray-Ban specchiati, mentre ‘Gnazio, rauco e antropologicamente sicilianissimo (poi immortalato nella geniale maniera di Fiorello) appariva, sin dagli anni Settanta in cui tuonava nei comizi e nei cortei, decisamente trasandato e sciatto. Un po’ come Pinuccio Tatarella, solo per la trasandatezza però.
Poi c’era Gianni Alemanno, per l’occasione con la croce celtica ben nascosta sotto la camicia. C’era Maurizio Gasparri che si offendeva rabbiosamente se qualcuno diceva di lui che era stato militante dei neofascisti del Fuan, organizzazione universitaria missina (“non è vero, non dire neofascista, io non ho mai fatto saluti romani, ti querelo” e uno gli rispondeva: “Ok, ma se non eravate neofascisti, allora perché ci avete invitato tutti qui, nella purificazione di Fiuggi ?”, ma non c’era verso). Poi c’erano Adolfo Urso, che sapeva a memoria le date della storia missina. Mirko Tremaglia, figura storica della leva almirantiana. Italo Bocchino, che pendeva dalle labbra di Tatarella e ne voleva essere l’interprete ufficiale. Altero Matteoli, spirito toscano non fiorentino di Cecina, che scomparirà tragicamente in un incidente stradale nei pressi di Capalbio, macabro paradosso. E Francesco Storace, sanguigno e corpulento promotore dell’immagine di Gianfranco Fini (millantava che c’era un filo diretto e improbabili connessioni tra il segretario del Msi e il presidente Cossiga per attirare i giornalisti golosi, poco avvezzi alle cose missine, nella cornucopia della notiziabilità quotidiana). In precedenza si era fatto le ossa con l’avvocato Michele Marchio, corpulento e sanguigno il doppio di lui, dell’inner circle almirantiano, lazialissimo che amava fare risse in Tribuna Tevere allo stadio, e che io conoscevo bene perché era fraterno amico di mio padre avvocato e repubblichino. Poi Storace romperà con Fini per il fascismo “Male assoluto” che in realtà Fini non aveva mai detto (ne sono stato testimone diretto, a Gerusalemme, ho le prove): cioè, per dire, era talmente solido il sodalizio che si dissolse per parole mai pronunciate, si vede proprio che mancava il ministro dell’Armonia.
Poi Storace romperà con Fini per il fascismo “Male assoluto” che in realtà Fini non aveva mai detto (ne sono stato testimone diretto, ho le prove)
Erano diventati, per tutti, i “colonnelli” del generalissimo Fini (da notare, a proposito di maschilismo, neanche una colonnella: e Giorgia Meloni non aveva ancora l’età). Poi c’erano gli irregolari, non politici professionali, inclassificabili. Mancava Marcello Veneziani, di cui si ammiravano i foulard multicolori, che aveva avuto un ruolo importante nella storia culturale della nuova destra. Ma c’era eccome Pietrangelo Buttafuoco. Fu Filippo Ceccarelli, mio dirimpettaio super-mattiniero alla Stampa e archivista sfrenato e ammirevole, a farmelo conoscere: “Ma lo leggi sul Secolo d’Italia questo Dragonera? E’ un talento, chissà di chi è lo pseudonimo”. Lo scoprimmo presto, era di Buttafuoco, libraio siciliano versatile e fanatico di Carmelo Bene. A Fiuggi volteggiava tra i tavoli dei ristoranti zeppi di giornalisti, accanto a un prete in tonaca ma dal linguaggio molto secolarizzato, di cui purtroppo non ricordo il nome. Per un po’ frequenterà assiduamente questo Foglio. Poi imboccherà strade diciamo così culturalmente distanti, ma lo spirito spavaldo di Dragonera sarà gelosamente custodito dal suo legittimo proprietario.
Buttiglione auspicava qualche spinta ulteriore alla defascistizzazione, e Mirko Tremaglia sbottò: “Ma che vogliono ancora di più, il culo?”
“Autorità nazionali e internazionali…”. Cominciava la kermesse. Sì, fu una kermesse. Ma la parola kermesse, me ne rendo conto, rischia di non fare giustizia del ribollire di passioni, di entusiasmi, di disperazioni che per qualche giorno hanno colmato quella tranquilla località termale con una cerimonia da tutti considerata un’importante svolta politica. Un senso di frattura, anche dolorosa, con il proprio passato: con il proprio “vissuto”, come usa e abusa dire adesso. I pianti a dirotto quando la sala si faceva buia e partivano le luci stroboscopiche con accompagnamento di melodie che buttavano sul lacrimoso per salutare le immagini dei padri da abbandonare, Giorgio Almirante in primis. I dissidenti “rautiani” contrari alla svolta che animavano furibonde colluttazioni con qualche sediata di troppo al grido di “Badoglio! Badoglio!!” che secondo i dettami del neofascismo immaginario (copyright Lanna-Rossi) stava tradizionalmente a significare “traditori, venduti”. I dissidenti daranno poi vita al movimento scissionista, insomma la Rifondazione fascista, chiamato “Fiamma tricolore”: ieri come oggi, l’eterno ritorno del sempre uguale, delle stesse polemiche, delle stesse fiamme, delle stesse baruffe sui simboli. Ma gli aennini non rinunceranno neanche loro alla Fiamma, aggrappandosi all’ultimo stemma di una vita, di una militanza, di un’identità che avrebbe dovuto portare dall’adolescenza politica alla completa maturità. E i commentatori, frastornati e confusi, quelli richiamati all’ordine da quel potente “autorità nazionali e internazionali” che facevano “mmmh, sarà vero?”, “non resteranno per sempre fasci?”. E i rappresentanti degli altri partiti che si dondoleranno in affermazioni non compromettenti, né in un senso né in quello opposto: bene, però; la strada è giusta, ora bisogna vedere; un passo avanti importante, ma non è sufficiente. E il vecchio Mirko Tremaglia che a un certo punto perse la pazienza in sala stampa quando qualcuno gli faceva notare che Rocco Buttiglione apprezzava, ma auspicava qualche spinta ulteriore alla defascistizzazione da parte di Gianfranco Fini, e sbottò: “Ma che vogliono ancora di più, il culo?” e i suoi came…, i suoi amici lo hanno portato via: “Andiamoci a fare un caffè, Mirko, non te la prendere, sai come sono fatti”.
Poco a che fare con la svolta di quattro anni prima, quella della grande Quercia post-comunista. Giornalisti e politici che si salutavano per nome
“Autorità nazionali e internazionali…”, questo era il fragoroso gong che segnava l’inizio della kermesse, ma oramai si era arrivati quasi alla fine. I delegati, dopo aver disciplinatamente votato (mica con le sorprese inflitte a Occhetto a Rimini nel gennaio di quattro anni prima), sciamavano tranquilli verso le loro città e le loro case. Fini, accompagnato dalla moglie Daniela, fumava una sigaretta via l’altra. I colonnelli scalpitavano. Le autorità nazionali e internazionali si erano già allontanate con le loro possenti macchine blu. I giornalisti sistemavano i bagagli, prima di essere bloccati da qualche imprevisto che li avrebbe costretti a dormire un’altra notte a Fiuggi, seconda Rimini, dove scorrevano le acque del benessere senza dare però l’immagine di villeggiature elettrizzanti. Tra l’altro il primo governo Berlusconi era stato appena esautorato, con l’incarico dato da Oscar Luigi Scalfaro (fischiatissimo in platea) al ministro del Tesoro Lamberto Dini (“Badoglio!”). Roma aspettava, Bossi era passato con gli altri e improvvisamente era diventato una “costola della sinistra”. Ma il passaggio di Fiuggi era necessario: nella Seconda Repubblica post-ideologica e iper-leaderistica bisognava transitare con il bagaglio leggero, non con l’eredità pesante di Pci e Msi. Adesso sembra una storia d’altri tempi, un’èra geologica conclusa, una Seconda Repubblica in agonia mentre almeno la Prima era finita con uno schianto. Ma era soltanto trent’anni fa. E allora fu vissuta con un’emotività forte, e un’animosità altrettanto potente. Non era uno scherzo. Anche se, fattosi buio, quattro delegati del Nord, saltando su una vettura bianca, guardando baldanzosi i pochi giornalisti in disarmo rimasti a far la guardia, si sono messi a canticchiare “Giovinezza, giovinezza primavera di bellezza”. Per poi aggiungere: “Si scherza eh”. Si scherzava? Le autorità nazionali e internazionali erano già via, non avrebbero potuto testimoniare.