Il compositore lancia un manuale per difendere il dialetto: “Arginare gli errori senza pretese accademiche”. E sul declino della qualità artistica, dice che “Social e sovrapproduzione hanno cancellato la gavetta. Servono studio e critica per fare arte”
Ha firmato pezzi celebri della musica leggera, ma a Claudio Mattone ora fa più piacere essere menzionato per il manuale appena pubblicato: “Scrivere in napoletano (decentemente…)” per Edizioni Metropolitana, che dichiara nel titolo l’intento. Difendere l’idioma dalle storpiature “che lo stanno riducendo ad una povera caricatura”. L’attualità incoraggia perché venerdì scorso, Giornata nazionale dei dialetti, Disney Panini ha pubblicato Topolino in cinque versioni: italiano corrente, napoletano, milanese, catanese e fiorentino.
Come mai un compositore s’è imbarcato nell’impresa?
Nel lockdown della pandemia, infastidito dagli sfondoni che leggevo, cominciai a pubblicare su Facebook post che segnalavano gli scempi e la grafia corretta. Senza pretese accademiche, ma allo scopo di arginare gli orrori: “Che d’è?”, ossia “Cosa c’è?”, non può essere scritto “Cre’?”… La mia è una guida utilizzabile da tutti, e pure divertente.
Tra gli aneddoti ricorda uno storico errore: “Je so’ pazzo” di Pino Daniele.
“Io” in napoletano si scrive “Io” o “I’”. “Je” va bene a Parigi… quando ci accorgemmo della svista la casa discografica aveva già stampato la copertina. Considerando la grandezza di Pino è un dettaglio che racconto per sorridere. Con un po’ di nostalgia.
Ha visto i testi di Geolier?
Merita l’assoluzione, perché è come il gergo che usiamo nei messaggi su WhatsApp. È quasi un gioco. Mi spiace piuttosto che le persone anche di media cultura prendano il gioco per un’evoluzione. Negli ultimi tempi s’è persa la misura. Non penso solo alla scrittura del napoletano.
A cos’altro?
Prima ci si preparava con lo studio, con la gavetta. Valeva per il musicista e il paroliere come per il pittore, il meccanico o il barista. Chi non sapeva cucinare non faceva il cuoco, chi non sapeva scrivere non pubblicava libri.
Cos’è successo?
È venuto a mancare il pudore autocritico. È prevalsa la massima: “lo spettacolo lo fate voi”, per cui ognuno se ne sente capace. Come sui social: tutti esperti di tutto.
Chiunque può cantare.
All’epoca dei dischi si facevano tanti provini e costavano: bisognava fittare lo studio, chiamare i musicisti. Io stesso, se dovevo proporre una canzone, o ero straconvinto o mi autocensuravo. Ora le produzioni non sono più legate agli investimenti di una casa discografica. Ciascuno sul pc può trovare loop ritmici già fatti, metterci quattro note e piazzare tutto in rete senza bisogno di distribuzione. Così, se prima uscivano cento dischi all’anno, oggi c’è una sovrapproduzione a discapito della qualità. Manca un direttore di edizione, qualcuno che dica: quest’accordo è sbagliato, questa strofa puoi renderla meglio. Perciò ci sono cover che si cantano cinquant’anni dopo e brani di due anni fa che scompaiono.
Ci vuole anche l’ispirazione per creare un classico?
Gli aneddoti su come nasce una canzone sono vezzi d’autore. Le cose vengono lavorando, parti da un’ideuzza poi traffichi sulla tastiera finché la lampadina non s’accende.
Si sveglia mai con una melodia in testa?
Sogno bellissime canzoni che al mattino non ricordo più.
Si scrive per un interprete?
Spesso serve immaginare un timbro, una personalità. Per “Ma chi se ne importa” mi figuravo Celentano, poi la sentì Morandi e la prese. Per esempio “Ma che freddo fa” fu tarata su Nada grazie al genio di Franco Migliacci: il mio pezzo piaceva alla RCA, ma sul testo c’era da lavorare. Ricordo che vagavamo in macchina rimuginando finché Franco disse: sfruttiamo la voce nasale di Nada mettendoci le ‘effe’… “ma che freddo fa…”.
Con chi s’è divertito di più?
Con Renzo Arbore: il gusto del cazzeggio ci ha aiutati a essere spontanei giocando con la musica.
A proposito di dialetti: come nacque “Sud”?
Registravo un disco per Eduardo De Crescenzo e avevo bisogno di una massa corale dialettale quasi da strada. Radunai nel mio studio di registrazione un po’ di amici napoletani che vivevano a Roma e a Renzo piacque molto l’idea, così volle una canzone per il film “FF.SS.”. Partimmo da “South” di Armstrong con un approccio giocoso da “Quelli della notte”. Cominciò lui: “Nuje simmo curte e nire…”. E proseguimmo.
Come comincia la sua carriera?
Da cantautore ispirato a Luigi Tenco. Creai un brano sul suo genere ed ebbe successo: “È sera”, lo interpretò pure Peppino di Capri. Poi ci fu l’incontro con Migliacci.
I primissimi inizi?
A sei anni chiesi la fisarmonica a mio padre, violinista dilettante. Poi mi regalò un pianoforte. Ero diviso tra passione per la letteratura e la musica. Vinse la musica: a sedici anni accompagnai per un’estate Marino Barreto. Suonavo nei locali frequentati dagli americani, nei piano bar.
Lo racconta nella canzone “Ma che ne sai… (se non hai fatto il piano-bar)”.
Ne ricaverò un libro di aneddoti, alcuni già accennati nel brano: per esempio quando un’orchestra chiedeva il cambio all’altra intonava “Blue Moon”; quando eravamo stanchi e volevamo mandar via gli avventori irriducibili, attaccavamo un soporifero assolino jazz.
Cosa ha scritto di recente?
Negli ultimi tempi la voglia di scrivere non è legata alla produzione musicale, però una canzone l’ho terminata. La inserirò in “C’era una volta… Scugnizzi” se tornerà in scena.
Il tema del musical è sempre attuale.
Purtroppo sì. Con quello spettacolo cercavo di trasmettere un contenuto etico, come bisognerebbe sempre fare. Quando si racconta la realtà ci vuole uno spunto incoraggiante per non dichiararsene sopraffatti.
La sua città sta vivendo un gran recupero malgrado le ombre.
Sono corsi e ricorsi di glorie e declini. Sento molto i problemi di Napoli e gioisco molto dei successi. Vivere lontano accentua gli affetti.