Hanno la cultura come oggetto, ma non riescono neppure lontanamente a concepire la possibilità di pronunciare giudizi di valore. E le questioni di qualità culturale, di eccellenza o di cattivo gusto, di fallimento artistico o di cecità intellettuale, non sono afferrabili dalla scientificità analitica
Una volta Robert Musil, il cui maggiore difetto letterario era forse l’eccesso di intelligenza (simile in questo a Paul Valéry), disse che nella storia era avvenuta una svolta verso la stupidità nel momento in cui qualcuno definì “geniale” un cavallo da corsa. Chissà che cosa avrebbe detto l’autore dell’Uomo senza qualità se avesse sentito parlare di macchine pensanti. La sua particolare sensibilità di scrittore gli permetteva di capire che cos’è la mancanza di intelligenza, chiamata comunemente stupidità. Fra i vari luoghi e oggetti della vita sociale la stupidità si incontra anche nel settore culturale, ovvero nella cultura intesa come settore istituzionale, professionale, burocratico, cioè fra pensatori, studiosi, artisti e ricercatori intesi non come individui ma come categoria. Esiste una specifica non intelligenza degli intellettuali, che nell’ultimo secolo o cinquantennio è cresciuta a causa di apparati organizzativi sempre più attivi e dotati di potere.
Ho citato quell’osservazione di Musil per introdurre a un fenomeno molto attuale: l’incapacità degli studi sociologici che hanno la cultura come oggetto, ma che non riescono neppure lontanamente a concepire la possibilità di pronunciare giudizi di valore, individuando nelle attività e nei prodotti culturali fenomeni di stupidità e di volgarità, che non sfuggono al senso comune, ma sfuggono agli studiosi armati di metodo.
Le questioni di qualità culturale, di eccellenza o di cattivo gusto, di fallimento artistico o di cecità intellettuale, non sono afferrabili dalla scientificità analitica, che ha un debole per il calcolo quantitativo e non percepisce la qualità dei prodotti di cultura. Da quando le “scienze umane” hanno preso il posto degli studi umanistici (studia humanitatis, paideia) le descrizioni e le raccolte di dati fattuali aumentano, mentre non si hanno categorie concettuali valutative in grado di identificare fenomeni qualitativi.
Un bell’esempio di studio sociologico prevalentemente quantitativo è l’imponente volume, carico di informazioni, di Donald Sassoon La cultura degli europei dal 1800 a oggi, pubblicato in inglese nel 2006 e tradotto in italiano nel 2008 (Rizzoli, pp. 1595, euro 45). Di che si tratta? Di studio storico della cultura compiuto da uno studioso che non è e non vuole essere un critico della cultura e che, per deontologia scientifica, ha deciso di non pronunciarsi sulle differenze, per esempio, tra un qualunque vendutissimo feuilleton e le opere, per esempio, di Kierkegaard o di Flaubert o di Dostoevskij. Mette in imbarazzo l’atteggiamento sprezzante con cui Sassoon parla di autori di élite che giudicano autori di massa. Cita Kierkegaard che osservò: “Nell’odierna letteratura danese i compensi, perfino per gli autori di buona reputazione, sono molto bassi, laddove invece le mance lasciate cadere nei cappelli degli scribacchini sono assai sostanziose. Più un uomo di lettere, oggi, è spregevole, più denaro guadagna”.
Sassoon non tollera però che si giudichi male la letteratura di massa, perché ritiene che la critica non è altro che una tipica reazione di “reazionari infuriati” con la loro valanga di “allarmi moralistici”. E precisa: “Dato che la popolarità era incompatibile con la loro posizione elitaria, fumavano di rabbia davanti ai guadagni degli autori di romanzi d’appendice”.
Il sociologo della cultura non riesce ad accettare che esistano intellettuali capaci di giudizio letterario, culturale, sociale e morale. Così La cultura degli europei secondo Sassoon è fatta solo di valori di mercato, di influenze e di egemonie, di poteri, di vendite e di incassi, di industria editoriale e diffusione quantitativa di libri e altri prodotti culturali. Finché nell’ultima parte del libro ci informa sull’avvento della televisione, il suo metodo è congruo e ci offre un panorama interessante. Ma per i due secoli precedenti i generi letterari e musicali sono citati senza spiegare né interpretare il contenuto della loro genialità. La filosofia è pressoché assente, per cui Hegel e Marx, Nietzsche e Weber, Heidegger e Adorno spariscono. La cosa curiosa è che Sassoon ignora critici culturali come Kraus, Orwell, Anders, Canetti, Nicola Chiaromonte, Dwight Macdonald, Enzensberger, Pasolini, Tom Wolfe…
A questo punto faccio due nomi che mi hanno aiutato a capire la cultura di fine Novecento: Umberto Eco e Stanley Kubrick. Il primo era un estetologo e semiologo della cultura di massa, che prese per mano la cultura universitaria e d’avanguardia per diventare lui protagonista della letteratura di massa. Kubrick ha fatto il contrario: ha usato il cinema, arte di massa del Novecento, per farne un’arte superiore a tutte le altre arti, letteratura, pittura, musica: nessuna delle quali ha prodotto opere all’altezza dei suoi film.