Visioni apocalittiche, deserti di desolazione e personificazione della guerra. Da Anders a Horstmann, fino a Kubin: oggi la tradizione pessimista è più attuale che mai. D’altronde siamo fatti per eliminarci, è la natura
“Lo spazio di cento anni per lo più è la larghezza dell’alveo che ha il fiume della dimenticanza. Sono di già morti quegli uomini che conobbero infruttuose, vane, non senza gran pericolo e con grandissimo danno le ribellioni. Non si scorgono più le ville abbruciate, gli arbori inceneriti, le terre insterilite, le città deserte, distrutte, disfatte”. Così Virgilio Malvezzi, moralista dimenticato. Più che analisti o polemologi (questi adulti che giocano al risiko della geopolitica) sono i moralisti che conoscono la X nell’equazione sballata della Storia, giacché chi nelle cose umane calcola pro e contro, secondo euclidea ragione, sorvola quasi sempre sull’incognita ovvero l’intrinseca follia dell’uomo: la sua propensione elettiva alla fossa propria e altrui. E infatti, dopo ottant’anni, si torna a ventilare – quasi fosse aria di ventaglio nell’afa della pace – l’uso “tattico” della bomba atomica, nell’attesa che con climax inarrestabile quell’uso volga allo “strategico” e insomma l’apocalisse nucleare torni a far cucù nei modestissimi casi terrestri.
Già si profilano le ristampe di Gunther Anders, heideggeriano antimilitarista il cui pessimismo “arduo da sopportare” (così la moglie Hannah Arendt già di suo una non campionessa di leggerezza e simpatia) si era esercitato su questi stessi temi durante la Guerra fredda. Ma Anders, oltre all’insopportabile arzigogolo contratto dal maestro, non aveva meditato Malvezzi e quindi ignorava che – per l’immaturità dei tempi – l’ecatombe nucleare era altamente improbabile, dato che nel mondo circolavano ancora gli hibakusha, i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, autentici moniti viventi della piromania di Prometeo.
Per i tempi attuali appare ben più corroborante Ulrich Horstmann, autore tedesco nato nel 1949 a Bünde e mai tradotto in italiano. Discepolo di Schopenhauer (e quindi leggibile e accattivante nello stile) col suo brio satirico fa sembrare Anders un cervellotico conferenziere. L’opera più conosciuta o meglio famigerata di Horstmann è Das Untier (“La belva”) del 1983, la quale, per chi non mastica il tedesco, è stata appena tradotta e presentata in lingua castigliana col titolo di El monstruo. Perfiles de una filosofía antropófuga. Ensayo sobre la guerra y el belicismo (“Il mostro. Profili di una filosofia di fuga dall’uomo. Saggio sulla guerra e il bellicismo”) da Manuel Pérez Cornejo, valente studioso della scuola schopenhaueriana. L’opera fa parte della collana “Biblioteca pesimista” dell’editore Sequitur che, in sintonia col nostro evo parecchio disastrato, offre i migliori pensatori della tradizione pessimista (tra cui pur i nostri Leopardi e Michelstaedter) ridiventati loro malgrado degli scottanti autori à la page.
Ordunque per Horstmann l’umanità è naturalmente programmata a eliminarsi nel corso della Storia: “Lo scopo ultimo della storia è un campo di rovine in rovina. Il suo senso finale è la polvere insufflata nelle cavità oculari dei teschi umani”. La nostra specie si definisce e differenzia in natura per il gusto sopraffino di uccidere, di torturare il proprio simile per mero piacere (fatto che ci pone molto al di sotto dei dinosauri di ieri e delle blatte di domani). Ispirata alla Filosofia della redenzione di Philipp Mainländer, quella di Horstmann auspica una soluzione ancor più drastica all’ingombro dell’Essere, giungendo a esaltare l’uso delle armi nucleari quale mezzo di annichilazione totale. Già Nicolás Gómez Dávila aveva notato che “l’uomo non sa più se la bomba all’idrogeno sia l’ultimo orrore o l’ultima speranza”, ebbene per Horstmann solo la catarsi nucleare può inaugurare la palingenesi universa o pace della materia infine epurata dall’organico.
Secondo la sua visione apocalittica, il giardino dell’Eden è un deserto di desolazione: “La storia della Belva si è compiuta. Essa attende a testa bassa la sua duplice morte: la distruzione fisica e quella della sua irricordevole nomea”. La belva – per la foscaggine tutta alemanna del tratto – rammenta Der Krieg di Alfred Kubin ove la personificazione della guerra, umanoide e mostruosa, si appresta a schiacciare con zampa elefantiaca intere falangi armate: calzante immagine dell’umanità che si azzarda a giocare con lei. Personalmente, su tali temi di tanatologia dell’umanità, preferisco l’understatement del film “WarGames” solo in apparenza adolescenziale. Alla fine il supercomputer bellicista, giocando infinite partite a tris, apprende in pochi millisecondi ciò che l’uomo non è riuscito ad apprendere in millenni ossia l’inanità di tutti i possibili scenari di guerra termonucleare, concludendo che nel tris come nei conflitti atomici “l’unica mossa vincente è non giocare”. Il corollario – per nostra fortuna meno elegiaco e umanista – a cui forse perverrà la prossima AI iper-quantistica, sarà: “nessuna mossa, nessun gioco, nessun uomo… eureka”.