Una squadra lotta per evitare la retrocessione, l’altra non ha i soldi per far giocare due suoi calciatori. Dentro la crisi di risultati o economica di due nobili del calcio europeo
Può provarci, il Manchester United, a dire di essere tornato, a rialzare la testa: ha pareggiato solo una settimana fa in casa del Liverpool dominatore della Premier League, avrebbe potuto anche vincere, sembrava una formazione degna del nome che porta. Ma ormai Ruben Amorim lo ha detto, ha associato quella parola alla squadra che è stata di Matt Busby e Alex Ferguson: ha ammesso, una settimana prima della partita con i Reds, che lo United ora lotta per evitare la retrocessione. Ha solo sette punti di vantaggio sull’inferno, con mezzo campionato da giocare. Ora provate a ignorare la premessa e a leggere, senza contesto, solo la frase “il Manchester United lotta per non retrocedere” con tono serio. Sì, non sembra vero. È vero.
Ci ha, invece, provato a organizzare un calcio per ricchi il Barcellona. Ci prova da tre anni: è una delle due squadre (insieme al Real Madrid, la Juventus da tempo chiede di uscire) rimaste ancora tra le promotrici di una Superlega che ora cerca un nome presentabile per farsi accettare come novità e non come atto di arroganza. Solo che è sull’orlo del collasso economico, è passato dall’anima elitaria di un pallone per pochi a quella da questuante per cercare di sostenere il campionato attuale. Ora senza ignorare la premessa provate a leggere, tenendo a mente il contesto artificiale che i catalani volevano creare, solo la frase “il Barcellona non ha i soldi per far giocare due suoi calciatori”. Sì, non sembra vera nemmeno questa. È vera anche questa.
Se il calcio in questa stagione vuole raccontarci qualcosa, eccola: anche i ricchi (di blasone) piangono. Stanno già piangendo, perché comunque vada a finire la loro stagione devono già fare i conti con le rispettive figuracce. Non basta, ad esempio, una buona partita a togliere il Manchester United da laggiù, dopo una campagna estiva da 200 milioni di sterline, dopo aver puntato ancora una volta su Erik ten Hag in panchina per poi accorgersi che doveva inventarsi altro e, ovviamente, quell’altro mica se l’è inventato: l’ha comprato. Ha liquidato l’allenatore che c’era e i suoi collaboratori con dieci milioni di euro, è andato dallo Sporting Lisbona con altri dieci milioni (più un altro milione per lo staff) e ha pagato la clausola per portarsi a casa Ruben Amorim, astro nascente e unico capace in Portogallo di sfidare la diarchia Porto-Benfica. Forse, però, l’uomo giusto nel posto sbagliato: se bastassero ventuno milioni per raddrizzare una squadra, allora sarebbe tutto acquistabile, ma il calcio è ancora il regno dell’imprevisto che raccontava Galeano ed è fatto di uomini e di fatica. Amorim, rigido nel sistema tattico, ha bisogno di tempo per prendere le misure e adattare i giocatori al suo modulo, ma non adatta sé stesso. Quindi ha mandato la squadra in crisi esistenziale.
Magari con il tempo Amorim avrà ragione, ma ora no: perde alcuni giocatori (con Rashford difficile recuperare un rapporto) e le partite, mette lo United davanti a un pericolo mai preso in considerazione. Non accadrà, ma solo agitare lo spettro della retrocessione ha fatto scatenare i contabili: lo United incassa quasi 270 milioni di euro di diritti tv e già perderà quelli della Champions del prossimo anno, ma finendo al piano di sotto ridurrebbe questa somma di quasi il 75 per cento. In più, ogni posizione nel campionato inglese vale 3,7 milioni per i pagamenti “al merito”. Poi ci sono gli sponsor principali, alcuni con accordi in scadenza nel 2025 (chi rinnoverebbe, in caso di retrocessione?) e addirittura l’Adidas (oltre 100 milioni di euro all’anno) ha l’opzione per ridurre alla metà il suo esborso nel caso limite, mantenendo in vita il contratto (lungo fino al 2035), ma può anche rescinderlo con una stagione di preavviso, in caso di Championship. Sono solo alcuni dei tagli (poi andrebbero ridiscussi o risolti i contratti dei calciatori) per dare una polaroid del danno che porterebbe una retrocessione. Che probabilmente non ci sarà, ma non diventerà mai un successo: è già tutto da rifare e siamo ancora a gennaio.
A gennaio, invece, non voleva arrivare il Barcellona. Non così, almeno. Perché da quando è iniziato il 2025 i catalani non possono far giocare Dani Olmo, l’affare strombazzato dell’estate, 55 milioni di euro spesi per portare uno dei protagonisti dell’ultimo Europeo al Camp Nou, arricchire l’argenteria. Ma va sempre così, anche nei film più banali: quando un ormai sedicente ricco si impoverisce, prova finché può a fingere di non essere in decadenza, ma prima o poi deve rinunciare anche agli oggetti preziosi. Ecco, il Barcellona ha comprato Dani Olmo in estate (e Pau Victor, l’altro giocatore inutilizzabile) senza poterselo permettere, perché con il suo ingaggio superava il limite salariale previsto dal regolamento. Che in Spagna è proporzionale alle entrate, ma che se viene superato non permette di registrare i nuovi calciatori. Era un problema già in estate, ma poi in qualche modo (e con una deroga della Liga, tutto sommato tollerante) Olmo ha iniziato con qualche giornata di ritardo e ha potuto giocare la prima parte della stagione.
E ora che non ci sono più deroghe spendibili (e gli altri club sono sul piede di guerra) Laporta ha cercato sponda nel Governo: può registrarli grazie al temporaneo lasciapassare del Consejo Superior de Deportes, organo operativo del ministero dello sport spagnolo. Liga e Federazione si oppongono, e se Olmo giocherà sarà per un trucco. Ma la brutta figura ormai è molteplice: la maxispesa per un giocatore che il Barcellona non poteva permettersi è una, l’altra è la verità sui conti di un club fortemente indebitato e, soprattutto, l’operazione per salvare Olmo che è diventata una colletta: vendere abbonamenti decennali dei posti più esclusivi del nuovo Camp Nou a prezzo stracciato (poco meno della metà del valore reale) per avere soldi in cassa e risultare in regola. Ovvero: ipotecare anche i prossimi guadagni, ridurli di molto pur di incassare velocemente. Dopo la decisione cautelare si attende quella definitiva del Governo, che interverrebbe per salvare i conti del club, soprattutto: perché secondo Forbes rischia di perdere 263 milioni per questa operazione. Olmo, costato 55 milioni, potrebbe svincolarsi a zero se dovesse saltare la copertura governativa, ma gli andrebbe pagato l’intero stipendio previsto dal contratto fino al 2030 (50 milioni circa in tutto) in più i posti al Camp Nou sono stati venduti a un prezzo nettamente inferiore portando a minori incassi per un altro centinaio di milioni e poi altri costi che farebbe sprofondare i conti. Niente, forse, in confronto a perdere la faccia. Per rimediare a quello è già tardi.