Siamo così poco Charlie che ora censuriamo i dipinti, i film animati e pixelliamo le immagini di Maometto che parlano di censura. Gli slogan erano solo aria fritta e la penna era un bianchetto
Stéphane “Charb” Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo e vignettista, due anni prima di morire disse: “Può sembrare pomposo, ma preferirei morire in piedi che vivere in ginocchio”. E così è stato. Quando tutti gli altri sono in ginocchio, il tizio in piedi si distingue. E Charb e compagni si distinguevano da un decennio. Oggi, mentre l’Onu celebra la Giornata contro l’islamofobia, più di un governo europeo ha uno “zar per la lotta all’islamofobia”. In tutto il mondo, i colleghi dei vignettisti morti, quasi tutti quanti, concordano che la risposta al massacro di Charlie sia una o l’altra variante de “la penna è più potente della spada”. Ma lo slogan non funziona più: la penna è un bianchetto in mano a un tizio in ginocchio. “Il decimo anniversario della strage di Charlie Hebdo viene commemorato con un concerto di coscienze ripulite, un ballo di ipocriti e lacrime di coccodrillo” taglia corto Michel Guerrin, caporedattore del Monde. “La verità è che questo giornale satirico è solo. La squadra disegna e scrive in un bunker, circondata da poliziotti armati, in indifferente solitudine. Fuori, c’è solo il ‘silenzio di tomba’, denuncia Fabrice Nicolino nel numero del 7 gennaio”.
“Dieci anni dopo l’attentato a Charlie, la paura ha vinto”, confessa Badinter, la filosofa e femminista che testimoniò a favore del giornale
“Dieci anni dopo l’attentato a Charlie, la paura ha vinto”, confessa questa settimana all’Express anche Elisabeth Badinter. Nel 2007, la filosofa e femminista testimoniò a favore di Charlie Hebdo nel “processo sulle caricature”. Ora Badinter traccia un bilancio tragico: “Alla paura per la vita si aggiunge un’altra paura: quella di essere additati come appartenenti al ‘campo dei cattivi’; essere definiti razzisti, islamofobi, ecc. Quindi sono ancora pochissime le persone che parlano, tranne nel segreto delle conversazioni con familiari o amici”. Prima di morire, “Charb” stava lavorando a un libro che poi è uscito postumo, la “Lettera ai truffatori dell’islamofobia”. Consegnò queste pagine al suo editore il 5 gennaio. Due giorni dopo, il massacro. Oggi il testo è censurato nelle università francesi.
Alcuni avrebbero esagerato il loro disprezzo per Charlie: un commentatore del Financial Times, un altro tizio in ginocchio di nome Tony Barber, accusò lo “stupido” giornale satirico di “sciocchezza editoriale”. La direttrice della London Review of Books, Mary-Kay Wilmers, aggiunse: “Credo nel diritto a non essere uccisa per qualcosa che dico, ma non credo di avere il diritto di insultare chiunque mi piaccia”. E a giudicare da come è andata, Barber e Wilmers avevano ragione. Anziché di Charlie, viviamo nel mondo di Zerocalcare.
Siamo così poco Charlie che gli insegnanti della scuola media Jacques-Cartier di Issou, fuori Parigi, sono entrati in sciopero dopo le minacce di allievi musulmani. Durante una lezione, un insegnante ha mostrato agli alunni di prima media un dipinto del XVII secolo, “Diana e Atteone” di Giuseppe Cesari, che raffigura il passaggio delle “Metamorfosi” di Ovidio nel quale Atteone sorprende Diana e le ninfe mentre si lavano alla sorgente. Siamo così poco Charlie che il film “Persepolis” dell’iraniana Marjane Satrapi doveva essere trasmesso in un cinema dell’Ardèche nell’ambito di una gita scolastica, ma è stato cancellato “per paura della reazione dei musulmani”. Siamo così poco Charlie che si potrebbe scrivere un libro sugli intellettuali francesi portati in tribunale per islamofobia da quel 7 gennaio 2015: Michel Houellebecq, Éric Zemmour, Renaud Camus, Georges Bensoussan, Pascal Bruckner, Ivan Rioufol, Michel Onfray. E che non siamo Charlie lo si capisce anche dal silenzio di cui è prigioniero Boualem Sansal, mite e premiato scrittore da due mesi nelle galere algerine, ostaggio di Algeri e della gauche che non è Charlie.
Quando un tassista dopo averlo lasciato a casa gli ha detto “ora so dove vivi”, per il giornalista del Tagesschau (il Tg1 tedesco) Constantin Schreiber è arrivato il momento di smettere. Non si pronuncia più sull’islam. Schreiber sarà come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. “Non scriverò nessun altro libro sull’argomento, rifiuterò le richieste dei talk-show”, ha detto Schreiber al direttore della Zeit Giovanni di Lorenzo.
Siamo così poco Charlie che al Macalester College, nel freddo Minnesota, hanno censurato la mostra di un’artista iraniana, Taravat Talepasand, che ha realizzato una scultura che recita “Donna, vita, libertà” (lo slogan della rivolta delle donne iraniane). E quando il Parisien, il quotidiano dei vignettisti francesi della capitale, ha pubblicato un articolo su un’accademica licenziata in America per aver mostrato un’immagine di Maometto, Erika López Prater, docente alla Hamline University, lo ha fatto oscurando il volto di Maometto. Una catena di cinema del Regno Unito ha cancellato intanto tutte le proiezioni di un film sulla figlia di Maometto, “The Lady of Heaven”, dopo che le sale sono state assediate da attivisti musulmani. Il Museo di Pittsburgh ha cancellato la mostra d’arte islamica. “Perpetuava stereotipi islamofobi”. La Asia Society di New York ha deciso di oscurare le immagini di Maometto. A Berlino, i nudi dell’artista Susanne Schüffel sono censurati per non offendere i musulmani. La “Tefaf”, la fiera d’arte più importante del mondo a Maastricht, ha cancellato l’opera “Persepoli” di Luca Pignatelli, che consiste in un tappeto persiano sul quale è impressa una testa femminile. Bart Drenth ha poi rassegnato le dimissioni dopo appena sei mesi come direttore della “Tefaf” per aver criticato l’islam. Una delle migliori gallerie d’arte inglesi, la Saatchi di Londra, ha coperto due dipinti dopo le lamentele di musulmani secondo cui erano “blasfemi”.
Se la Bbc ha appena trasmesso un documentario sul massacro di 364 giovani israeliani al Festival Nova da parte di Hamas a patto che i terroristi non fossero chiamati “terroristi”, il timore di offendere ha spinto il canale 4 inglese a cambiare la trama di una serie, “Casualty”, cancellando dalla sceneggiatura l’attacco suicida di un terrorista islamico.
Per i nostri media gatekeepers, oggi c’è davvero solo una cosa “unsayable”: l’islam. Un popolare libro per bambini della serie Biff, Chip e Kipper è stato ritirato dalla Oxford University Press a seguito delle lamentele secondo cui era “islamofobo”. Una traduzione della Divina Commedia di Dante, tradotta in fiammingo da Lies Lavrijsen, ha rimosso Maometto dall’Inferno. Davvero molto Charlie. E sicuramente è Charlie Sadaf Ahmadi, l’artista iraniana, ma non lo è il comune di Borås in Svezia che ha cancellato le sue statue con il chador. Anime pie che solo ieri concordavano con Marx sulla religione come oppio dei popoli e che ora annunciano di tenere conto della “sensibilità islamica”.
Libertà di parola? Nessuno la evoca più, perché forse l’abbiamo già persa. E c’è chi, come lo Spiegel, la mette tra virgolette commentando la notizia che Facebook ora diventa liberale e molla la censura. L’ex direttore di Charlie, Philippe Val, vive in una casa dalle finestre antiproiettile, con una “safe room” blindata e poliziotti intorno. Il celebre drammaturgo Simon Gray ha detto che il National Theatre potrebbe mettere in scena un’opera satirica sul cristianesimo, ma mai una sull’islam. Anche il vincitore del Booker Prize inglese, Shehan Karunatilaka, si è autocensurato. “Avevo scritto una storia su un adolescente radicalizzato per una collezione che stavo preparando e mia moglie mi ha suggerito di cancellarla. Basta una persona per offendersi e improvvisamente sei uno scrittore islamofobo”. E quando ha sentito dell’attacco a New York contro Rushdie, non ha avuto dubbi: “Mia moglie ha detto: ‘Hai due bambini piccoli, togli quella storia’”.
Togliamo tutto, già che ci siamo. Dalla Tate Gallery di Londra l’opera “God Is Great” di John Latham, c’è una copia del Corano di troppo. E poi un adattamento di Aristofane e della commedia “Lisistrata”, cancellata dal Royal Court Theatre perché nella versione che doveva andare in scena le vergini islamiche scioperano per fermare gli attentatori suicidi. E poi “Tamerlano” di Christopher Marlowe, dove si arriva a bruciare il Corano, censurato al Teatro Barbican di Londra. A differenza del Josef K. del “Processo” di Kafka, il sacerdote cattolico Custodio Ballester sa bene di quale crimine è accusato. Questo prete spagnolo deve rispondere di “crimini d’odio”. La sua colpa è aver scritto un saggio in cui ha criticato l’islam. Il pubblico ministero della Catalogna ha deciso che l’articolo di Ballester intitolato “Il dialogo impossibile con l’Islam” soddisfa i criteri di “crimine d’odio”. Altro che vignettisti: ora si processano anche i preti.
Impressionante il numero di critici dell’islam finiti sotto scorta e a vivere come nei programmi di protezione dei testimoni
Un centinaio gli scortati europei perché sono Charlie. Non sono pentiti di mafia, sono accademici, attivisti, scrittori, giornalisti, intellettuali. Le loro precauzioni per proteggersi non sono mai troppe. Salman Rushdie aveva smesso di essere protetto da molti anni. Un professore di origine iraniana, Afshin Ellian, lavora all’Università di Utrecht, in Olanda, dove è protetto da guardie del corpo. La scrittrice turca Lale Gül per aver denunciato le scuole coraniche della Turchia in Olanda è finita sotto scorta. Un accademico francese è finito sotto protezione per aver voluto discutere un argomento tabù in Francia: il concetto di “islamofobia”. All’Università Sciences Po di Grenoble, definito “islamofobo” e “fascista”, l’accademico Klaus Kinzler è sotto scorta. Intanto la sede di Charlie ha sei porte blindate e un sistema a raggi X e in Danimarca la redazione del Jyllands Posten, che pubblicò le vignette su Maometto, è circondata da sbarre, lastre metalliche e telecamere per un chilometro, protetta dallo stesso meccanismo delle chiuse dei fiumi. Si apre una porta, entra una macchina, la porta si richiude e si apre quella di fronte. Numerosi dipendenti del quotidiano hanno dovuto lasciare il giornale a causa di un forte stress psicologico. Molte scortate sono donne, da Marika Bret, “esfiltrata” da casa sua, e la turca Claire Koc. O la giornalista Ophélie Meunier, che ha filmato in prima serata tv l’islamizzazione di Roubaix. E anche un imam come Hassen Chalghoumi, inserito in “Uclat 2”, il programma di protezione di cui beneficiano gli ambasciatori di Stati Uniti e Israele a Parigi.
“Dateci la sua testa”, hanno urlato intanto gli islamisti fuori dalla scuola inglese a Batley. Volevano uccidere un insegnante di cui non conosciamo neanche il nome e costretto a lasciare la scuola, oggetto di pesanti minacce di morte, reo di aver mostrato in classe le vignette su Maometto durante una lezione sulla libertà di espressione, che da tre anni vive in una “casa sicura” con sua moglie e i figli a causa del timore di essere uccisi. La minaccia è giudicata così grave che nemmeno i loro parenti sanno dove vivono. “Le finestre della casa dove l’insegnante ha vissuto per più di otto anni sono coperte di lenzuola bianche”. Come quelli che usiamo nelle gallerie d’arte.
Hitchens ci aveva avvertito: “Resistete finché potete. I barbari non prenderanno la città finché qualcuno non terrà loro aperte le porte”
Christopher Hitchens, il compianto giornalista inglese di cui mancano chiarezza e coraggio, provò ad avvertirci: “Vi prego… Resistete finché potete, perché un giorno diranno che siete islamofobi… I barbari non prenderanno mai la città finché qualcuno non terrà aperte le porte per loro e saranno le autorità multiculturali a farlo per voi. Resistete finché potete. E se vi chiedete cosa succederà se non lo fate, guardate come una squadra di cricket del Middlesex ha dovuto cambiare nome perché si chiamava Middlesex Crusaders. Resistete finché potete”. Ho controllato: i “Middlesex Crusaders” hanno cambiato nome in “Pantere”. Poi hanno eliminato anche quello. I crociati offendevano, ma anche le pantere mica scherzano. Troppo nere. Non eravamo Charlie. Siamo coglioni.