La produttività del lavoro è scesa del 2,5 per cento, quella del capitale dello 0,9 per cento e la produttività totale di tutti i fattori è calata anch’essa del 2,5 per cento. E anche dalla produttività del capitale arrivano notizie sconsolanti
Siamo un paese che ha paura di fare i conti con l’andamento della sua produttività. Quindi ha paura di guardarsi allo specchio. L’Istat giovedì scorso ha pubblicato un report che è un sonoro ceffone alle forze sociali e ovviamente alla politica. Stiamo parlando di dati 2023, gli ultimi disponibili, e il quadro è nero: la produttività del lavoro è scesa del 2,5 per cento, quella del capitale dello 0,9 per cento e la produttività totale di tutti i fattori è calata anch’essa del 2,5 per cento. Siamo di fronte a un drastico peggioramento perché se è vero che la produttività non è stata la materia in cui siamo storicamente andati meglio, almeno negli anni tra il 2014 e il 2023 si era registrato un incremento medio di quella del lavoro dello 0,5%. Le ore lavorate, invece, nel 2023 sono aumentate più del valore aggiunto.
Anche dalla produttività del capitale arrivano notizie sconsolanti sullo stato degli investimenti in tecnologie dell’informazione e della comunicazione, lo 0,9 per cento in un anno indica un andamento a gambero dell’innovazione. Vale per questo caso lo stesso ragionamento di prima: non è che negli anni scorsi fossimo dei primi della classe ma almeno nel periodo 1995-2023 la produttività del capitale era cresciuta dello 0,4 per cento medio annuo grazie a un valore aggiunto superiore a quello che viene chiamato l’input di capitale. Infine la produttività totale dei fattori che, come sottolinea l’Istat, riflette l’efficienza complessiva in cui lavoro e capitale sono utilizzati nel processo di produzione. Un 2,5 per cento in meno in un solo anno la dice lunga sullo stato di salute del sistema produttivo che non riesce a generare nemmeno il valore aggiunto degli anni precedenti. E che quindi corre il pericolo di allargare il gap di produttività nei confronti dei Paesi concorrenti. Di fronte a dati di questo tipo ci si poteva immaginare, se non un mea culpa collettivo, almeno un’informazione corretta e trasparente. Invece guai a parlarne. E stavolta la responsabilità non è solo delle forze di governo, di quelle dell’opposizione, della Confindustria e dei sindacati (figuriamoci!) ma, appunto, anche del sistema dell’informazione. Che ha fatto suo il vecchio motto “occhio non vede, cuore non duole”. Ma il rischio di avviarci lungo quella via bassa della competitività, che segnerebbe una sconfitta storico del modello produttivo italiano, c’è tutto. Anche perché siamo davanti allo sviluppo di un nuovo ciclo di innovazione, legato all’intelligenza artificiale, e arrivarci con un patrimonio tecnologico carente non è sicuramente un buon viatico.