Nella cella di Cecilia Sala

L’accusa alla giornalista di violazione della legge islamica è senza fondamento, il regime iraniano prende tempo, ci dice Jason Rezaian, giornalista che è stato 544 giorni a Evin. L’isolamento, gli interrogatori e “il rumore” fuori di lì

“Il fatto che l’Iran abbia arrestato Cecilia Sala per ‘violazione delle leggi della Repubblica islamica’ è un tentativo di confondere, di prendere tempo, di darci informazioni scarnificate: è come se Teheran avesse abbandonato la pretesa che questo arresto sia basato su qualcosa di legittimo”, dice al Foglio Jason Rezaian, giornalista del Washington Post che ha passato 544 giorni nella sezione 2A del carcere di Evin, a Teheran, dal luglio del 2014 al gennaio del 2016. La nostra giornalista Cecilia Sala è stata arrestata il 19 dicembre attorno all’ora di pranzo, ha ricevuto una visita dall’ambasciatrice italiana in Iran, Paola Amadei, il 27 dicembre, ieri il regime iraniano ha confermato l’arresto e ha fornito una motivazione così vaga, quella appunto di violazione delle leggi della Repubblica islamica, “che dimostra – dice Rezaian – che il regime troverà una motivazione, creerà una storia, frugherà tra le email di Cecilia, controllerà gli articoli che ha scritto e i podcast che ha registrato e dirà: qui c’è un esempio di come hai violato la legge, qui di come hai minacciato la nostra sicurezza nazionale”. Non c’è nulla, il regime iraniano prende tempo per costruire un caso senza prove e senza fondamento, e intanto tiene Cecilia Sala in una cella da sola, da dodici giorni.

“Ricordo i miei interrogatori – dice Rezaian – Io dicevo: sono in questo paese con il permesso del governo, come Cecilia, ho il permesso di fare il mio mestiere di giornalista, come Cecilia, quello che racconto è pubblico, lo si legge sul Washington Post. E quelli che mi interrogavano mi rispondevano: questo dimostra che sei una spia, perché il Washington Post è un giornale di Washington e il presidente degli Stati Uniti legge i tuoi articoli e usa le informazioni che fornisci contro il nostro paese. Questa è la mentalità con cui abbiamo a che fare, quindi non voglio in alcun modo dare legittimità al processo cui è sottoposta Cecilia perché non ne ha nessuna. Non è una cosa reale, è soltanto una facciata per nascondere il fatto che è stata arrestata dal regime perché vuole qualcosa in cambio. Posso dimostrare quello che dico? No, ma anni e anni di casi simili, di arresti e detenzioni da parte dell’Iran di persone che vivono in paesi democratici dove la libertà e la vita dei cittadini hanno un significato mostrano che il regime segue un trend”.



Quel che sappiamo oggi è che Cecilia Sala è in una cella di isolamento, con la luce artificiale accesa 24 ore al giorno e che, stando alle testimonianze di tante persone che sono passate per questa che viene chiamata “la prima fase” ed è “l’investigazione”, è sottoposta a continui interrogatori e alle pressioni dei carcerieri, che secondo l’esperienza di Rezaian fanno di tutto non solo per portarti a firmare una confessione ma anche per farti sentire solo, come se di te, fuori da quella stanzina minuscola e vuota con un buco per terra come bagno, non importasse nulla a nessuno. Con tutta probabilità Cecilia è detenuta nella stessa sezione di Rezaian, la 2A, che è gestita dall’intelligence delle Guardie della rivoluzione e che non è soggetta a nessun genere di controllo o verifica esterna, nemmeno formale. L’alternativa è la sezione 209, che è gestita dal ministero dell’Intelligence, che non è molto differente.

“Nella fase dell’investigazione e degli interrogatori in cui presumibilmente è Cecilia in questo momento – dice Rezaian – hai mezz’ora d’aria al giorno, non puoi comunicare con nessuno a parte le tue guardie, ti danno poco da mangiare, ti passano una specie di ciotola per terra, come a un cane, dormi per terra, la doccia è a discrezione dei tuoi carcerieri, una volta a settimana o ogni due ti portano dei detersivi per pulire la stanza”.

Ora che c’è stata la formalizzazione di “queste accuse senza alcun fondamento – dice Rezaian – e bisogna sottolinearlo sempre: sono senza fondamento, probabilmente l’isolamento di Cecilia continuerà. Non si possono prevedere queste cose, ogni caso è diverso, ma quello che posso dire è che molto dipende dalle risposte del governo italiano, dalle richieste che fa riguardo al trattamento di Cecilia. E voglio dirti che ho visto e sentito molti modi differenti in cui i prigionieri nella sua situazione sono stati trattati negli anni: corrispondono sempre a quanto si parla di queste storie nei media internazionali, a quanto i vari governi fanno pressione e anche a quanta ne subiscono loro stessi, di pressione”. Non sulle trattative che sono evidentemente riservate e che anzi possono essere rovinate da eccessive speculazioni, ma sull’ingiustizia subita da una giornalista che stava facendo il suo lavoro.

“Quando ero a Evin – dice Rezaian – le guardie e chi mi interrogava continuavano a dirmi: più rumore fa tuo fratello o tua madre o il tuo giornale più la situazione per te peggiora. Ma io invece ho capito che è vero il contrario: venivo trattato meglio quando c’erano le pressioni esterne”. Questo è successo quando Rezaian ha avuto un minimo accesso al mondo esterno: non è mai uscito, nel suo anno e mezzo di prigionia, dalla sezione 2A, ma dopo sette settimane è uscito dall’isolamento. “In quelle prime sette settimane non ho avuto modo di incontrare diplomatici né avvocati, mia moglie era stata arrestata con me e sapevo che anche lei era detenuta a Evin, non ho potuto telefonare ai miei genitori. Dopo, quando sono uscito dall’isolamento, mi è capitato di vedere la tv, con i principali canali iraniani: sentivo che si parlava di me in toni molto duri per giustificare quel che mi stavano facendo. Ma allo stesso tempo, in alcuni casi il mio trattamento migliorava, leggermente”.

Cecilia è ancora nella prima fase, quella in cui “cercano di spezzarti psicologicamente, tutto è fatto per questo scopo – dice Rezaian – Non c’è nulla di legittimo in quello che le guardie e le autorità ti fanno, è un abuso di potere rivolto a un individuo straniero semplicemente perché il regime vuole qualcosa dal paese di quell’individuo”. Secondo Rezaian “non c’è alcuna ragione per credere che le accuse che sono rivolte a Cecilia sono vere e c’è ogni ragione per credere che Cecilia faccia parte di una lunga storia che, fin dalle origini della Rivoluzione islamica nel 1979, si fonda sulla strategia di prendere in ostaggio cittadini di altri paesi per usarli come leva contro i governi di quei paesi. E’ quel che è accaduto a 52 diplomatici americani nel 1979, è quel che è successo anche a me”.

Il Washington Post ha pubblicato, dopo la liberazione di Rezaian, un minidocumentario di circa 20 minuti in cui racconta l’arresto, la prigionia, la condanna per spionaggio, le trattative e infine il rilascio del suo giornalista: allora la leva che il regime iraniano voleva utilizzare, attraverso Rezaian, contro l’America era il negoziato in corso sul programma nucleare di Teheran. “Ma la stessa cosa è accaduta a decine e decine di americani, inglesi, australiani, europei – continua – E ci sono molte cose che un governo può fare per alleggerire questa leva. Non so cosa stia facendo il governo italiano e non mi permetterei mai di entrare nel merito di queste materie delicate, non ho alcun dubbio che stia facendo tutto il possibile per riportarla a casa e per rendere migliori le condizioni in cui è adesso. Ma è importante comprendere che la nostra mentalità e la loro funzionano in modo diverso, perché al fondo c’è un problema di civiltà, un regime autocratico contro stati democratici. I nostri governi non arrestano e imprigionano le persone senza motivo, mentre il metodo autocratico è disegnato apposta per svilire il nostro stato di diritto”.

Oltre i negoziati per il rilascio, c’è l’opinione pubblica. Il Washington Post ha spiegato le scelte che ha fatto durante la prigionia di Rezaian, l’equilibrio complicato tra raccontare quel che avviene e allo stesso tempo non fare nulla che possa nuocere al tuo giornalista e non far mai abbassare “il rumore” attorno alla sua detenzione illegale. Questo è diventato un metodo di riferimento per il Wall Street Journal, di recente, quando è stato arrestato illegalmente in Russia, imprigionato, condannato e infine liberato, in uno scambio di prigionieri epocale, Evan Gershkovich.

Da ottobre Rezaian è diventato il direttore delle Iniziative per la libertà di stampa al Washington Post, che si occupa di tenere alta l’attenzione sui giornalisti che vengono ingiustamente incarcerati nei paesi dittatoriali. “Il Washington Post è stato loud, rumoroso – racconta – anche il Wall Street Journal lo è stato. Ho scritto e raccontato le storie di tanti troppi ostaggi in questi ultimi sette anni e posso dirti che nessuno di questi, una volta liberati, sono venuti a dirmi: accidenti Jason, avresti dovuto stare più quieto, avrei preferito che ci fosse stato più silenzio. Non è mai successo”. Anzi, dentro a Evin vogliono farti credere al contempo che nessuno parla di te, sei solo, e che quando ne parlano ti fanno un danno. “Se potessi dire qualcosa a Cecilia, le direi di essere forte, che molte persone si stanno occupando di lei e preoccupando di lei per portarla a casa nel modo più veloce e sicuro possibile, che nessuno crede che lei abbia fatto qualcosa di sbagliato, nemmeno quelli che la stanno tenendo rinchiusa. E quando tornerà, c’è una comunità sfortunata di persone come lei e come me che l’aiuterà a rimettere insieme la sua vita”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d’amore – corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d’amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l’Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell’Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi

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