L’instabilità francese e l’analisi di Marcel Gauchet: “Riscoprire il senso della politica vera: il peggior nemico delle democrazie è il moralismo che le pervade”
Alexandre Devecchio del Figaro ha intervistato Marcel Gauchet, filosofo, direttore della rivista Le Débat, figura di primo piano nel panorama culturale francese.
Le Figaro – Bayrou è il quarto primo ministro nominato in un anno e la situazione appare ancora più instabile di quella che regnava sotto la Quarta Repubblica. Oltre alla situazione senza precedenti creata dallo scioglimento fallito di Emmanuel Macron, questa situazione è anche la conseguenza della crisi democratica che lei descrive nel suo libro “Le Noeud démocratique” (Gallimard, 2024)?
Marcel Gauchet – Le elezioni legislative che hanno seguìto lo scioglimento dell’Assemblea nazionale hanno semplicemente reso tangibile il fattore destabilizzante che è al centro della crisi democratica, ovvero l’ascesa al potere del cosiddetto voto “populista”, sotto le spoglie del Rassemblement national (Rn). Fino ad ora, la minaccia era stata soltanto virtuale. Era rimasta fuori dal gioco politico. Ora è reale e ineludibile. La crisi che colpisce tutte le democrazie occidentali si manifesta con lo sviluppo di un nuovo clivage che si sovrappone a quello vecchio e centrale tra destra e sinistra, senza annullarlo, un clivage, diciamo, tra progressismo e populismo, che coincide con la frattura sociale tra popoli ed élite. Divide la sinistra e la destra classiche. A sinistra, per attenersi ai riferimenti francesi, si riflette nella fuga dell’elettorato operaio verso il Rassemblement national. Lo stesso accade a destra, dove separa i conservatori convinti dai liberali. Ciò spiega l’indebolimento dei partiti precedentemente conosciuti come i partiti “di governo”. Oltre a confondere i termini del gioco politico, questa frattura porta a una violenta polarizzazione dell’opinione che alla fine si traduce nell’impotenza del processo decisionale pubblico. Se fino a poco tempo fa si poteva dubitare della gravità di questa situazione di crisi, ora è impossibile ignorarla.
Possiamo parlare adesso di crisi di regime?
Non dobbiamo essere troppo precipitosi nel trasformare una situazione mutevole in uno scenario definitivo. In cosa consiste concretamente la crisi? Nell’impossibilità di far entrare i rapporti di forza elettorali nel sistema istituzionale, rendendo possibile una maggioranza parlamentare. Ma immaginiamo, ad esempio, che dopo un altro scioglimento la prossima estate, il Rassemblement national conquisti la maggioranza all’Assemblea. Non ci sarebbe più una crisi delle istituzioni. Si tornerebbe all’ormai classico scenario di coabitazione, a meno che il presidente non scelga di dimettersi, il che comunque non costituirebbe un problema per il regime stesso. Potrebbe esserci una crisi politica creata da movimenti nel paese che rifiutano i risultati delle urne, ma non una crisi di regime. Ma nel caso in cui si concretizzasse un altro scenario, Rn potrebbe perdere parte del suo elettorato e tornare a essere una forza di protesta periferica, incapace di influenzare la formazione di maggioranze parlamentari. E possiamo anche immaginare l’emergere, da qualche parte al centro, di una forza in grado di stare a cavallo della frattura, accogliendo alcune richieste sull’immigrazione e sulla sicurezza che fanno il successo di Rn, in modo da ridurre il suo uditorio. In fondo, questo è più o meno ciò che il macronismo ha promesso con il suo programma “di destra e di sinistra”. E’ ipotizzabile una versione più dura e convincente dei suoi scarsi risultati. La situazione attuale non è necessariamente destinata a durare e a radicarsi.
Da anni, lei ha diagnosticato una profonda frattura tra le élite e il popolo. In questo contesto, si può rimproverare al presidente della Repubblica di essere tornato al popolo? Non avrebbe dovuto tagliare il nodo democratico?
Sarei l’ultima persona a criticare il presidente per essere tornato al popolo, come dice lei. C’è molta ipocrisia tra i suoi ex sostenitori che lo maledicono per aver portato alla luce una verità sugli equilibri elettorali del paese che li fa imbestialire. “Nascondete questo Rn che non posso vedere!”. Esiste, e non per caso. Ciò che si può rimproverare al presidente è il fatto di non voler trarre le conseguenze della sua decisione di sciogliere l’Assemblea e di distorcere la realtà che gli è stata sbattuta in faccia. Voleva una conferma della sua elezione ottenendo la maggioranza che riteneva di meritare. Ha incassato invece una netta sconfessione. E’ lecito pensare che la dignità gli imponeva di trarre le dovute conseguenze. Ma dal punto di vista legale, nulla lo obbligava a farlo. Salvo un miracoloso recupero dell’opinione pubblica attraverso un nuovo scioglimento, rimarrà un presidente zoppo fino alla fine del suo mandato.
Il referendum, strumento che non è più stato utilizzato dagli ultimi presidenti della Repubblica, sarebbe più appropriato nel contesto attuale? E’ secondo lei un mezzo che potrebbe se non risolvere la crisi democratica quantomeno attenuarla?
Idealmente, sarebbe lo strumento adatto, a condizione di rivedere seriamente le condizioni del suo utilizzo e di rivedere altrettanto seriamente il ruolo del presidente della Repubblica in relazione alla sua recente evoluzione sotto l’effetto del quinquennio. Potrebbe consentire di colmare l’attuale frattura, restituendo allo stesso tempo il ruolo di arbitro al presidente. Il malessere politico che stiamo vivendo da ormai un bel po’ di tempo è dovuto alle politiche anti maggioritarie portate avanti dai vari governi su tutta una serie di argomenti rispetto alle aspettative dei cittadini. Dei referendum ben calibrati permetterebbero di oggettivare queste aspettative, poi spetterà ai governi in carica rispondere a modo loro, spiegandosi con i cittadini. Il presidente tornerebbe a essere l’arbitro tra il paese e il governo che non avrebbe mai dovuto smettere di essere.
Contemporaneamente alla crisi politica in Francia, abbiamo assistito all’elezione di Donald Trump. Tutti i paesi occidentali stanno vivendo gli sconvolgimenti democratici che lei descrive? L’ascesa dei cosiddetti partiti “populisti” è una causa della crisi della democrazia o, al contrario, permetterà di recidere il nodo democratico?
La causa principale della crisi democratica è la trasformazione dell’organizzazione soggiacente delle società che cerco di analizzare nel mio libro. Riguarda tutti, ma assume forme specifiche a seconda dei vari paesi. L’equazione americana che ha portato all’elezione di Trump non è uguale alla nostra. Ma la frustrazione democratica che si riflette ovunque nell’ondata di proteste populiste nel mondo occidentale ha motivazioni simili. L’esito della crisi dipenderà dalla risposta alle motivazioni dietro queste proteste, sia attraverso l’accesso diretto al potere, sia attraverso la loro presa in considerazione da parte delle altre forze politiche. Dobbiamo iniziare ad affrontare queste motivazioni, senza pregiudizi. Oggi, il peggior nemico delle democrazie è il moralismo che le pervade e che impedisce loro di affrontare i problemi con lucidità. Invece di fare sfoggio di virtù turandoci il naso di fronte agli odori nauseabondi del populismo, è ora di prendere sul serio il messaggio che veicola. Le democrazie devono semplicemente riscoprire il senso della politica, quella vera.
(Traduzione di Mauro Zanon)