Addio a Jimmy Carter, presidente delle buone intenzioni e dei pochi risultati

Il 39esimo presidente degli Stati Uniti si è spento a 100 anni: il suo fu un mandato che si concluse lasciandosi alle spalle un paese demoralizzato, dopo la crisi degli ostaggi con l’Iran. Il riscatto col Premio Nobel per la Pace per gli accordi di Camp David

Un presidente insolito, pieno di buone intenzioni ma sommerso dalle crisi, sconfitto dall’economia e dal confronto con il nascente regime iraniano dell’ayatollah Khomeini. Un premio Nobel per la pace che ha dato il meglio di sé dopo la presidenza, diventando per decenni un punto di riferimento di innumerevoli campagne umanitarie. Jimmy Carter, il trentanovesimo presidente degli Stati Uniti, si è spento a 100 anni nella sua casa in Georgia, dopo aver trascorso un paio di anni in un hospice attendendo la fine. Con lui scompare la generazione politica americana cresciuta con negli occhi la Seconda guerra mondiale, che Carter non aveva combattuto per un soffio: si era diplomato all’Accademia navale nel 1946, quando l’attuale presidente Joe Biden aveva quattro anni. A meno di un mese dalla fine della presidenza Biden, il paese adesso inizierà il 2025 con solenni funerali di Stato che serviranno anche come momento di riflessione storica su quanto sia profondamente cambiata l’America dai tempi di Carter a quelli dell’imminente seconda presidenza di Donald Trump.

Quella di Carter è sempre stata una vita passata a battere le aspettative, conclusa a un’età che è un record assoluto per qualsiasi presidente nella storia degli Stati Uniti. Anche la sua presidenza era stata inattesa, arrivata dopo una carriera da pilota di sottomarini, seguita da un’attività di coltivatore di arachidi diventato poi governatore della Georgia. I suoi anni alla Casa Bianca, tra il 1977 e il 1981, furono un momento di riscoperta di una bussola morale per il Paese, dopo l’epoca della guerra in Vietnam, di Nixon e del Watergate. Ma fu anche un’avventura di un solo mandato, carica di velleità e scarsi risultati, conclusa lasciandosi alle spalle un’America demoralizzata e in crisi economica e un mondo nel quale l’Urss aveva appena invaso l’Afghanistan, il trattato Salt II sulla limitazione delle armi nucleari si era impantanato e a Teheran il regime iraniano teneva in ostaggio 53 americani catturati nell’ambasciata degli Stati Uniti.

Uomo del profondo sud degli Stati Uniti, radicato in una fede battista che ostentava talvolta con toni da predicatore, Carter vinse le elezioni nel 1976 anche grazie alla voglia degli americani di allontanare per un po’ da Washington i repubblicani, dopo anni di scandali, rivelazioni e “gole profonde”. Gerald Ford, il presidente in carica che decise di sfidare, era politicamente indebolito dalla scelta di perdonare Nixon e fu relativamente facile per Carter sconfiggerlo, complice un’ondata di sostegno da parte degli stati del Sud, che per l’ultima volta nella storia americana appoggiarono in blocco un candidato democratico. Reagan nel 1980 li avrebbe spostati tutti quanti verso i repubblicani, con la sola eccezione della Georgia, la terra natale di Carter. Negli anni alla Casa Bianca promise molto e ottenne poco, alle prese com’era con una stagione di prezzi dell’energia fuori controllo, inflazione e tensioni globali. Tra i successi passati alla storia, restano senza dubbio gli accordi di Camp David del 1978 tra Egitto e Israele: la stretta di mano tra Anwar Sadat e Menachim Begin dopo tredici giorni di trattative, fu una delle ragioni che portarono ad assegnare a Carter il premio Nobel per la pace nel 2002. Ma i suoi anni di presidenza non sono ricordati in America con particolare entusiasmo. Non aiutarono a migliorarne l’immagine momenti bizzarri come il famigerato “discorso sul malessere” del 1979. Una sorta di predica televisiva in cui il presidente, dopo essersi chiuso per giorni a Camp David a riflettere sulla situazione del paese insieme a vari consiglieri, criticò gli americani per il loro stile di vita e chiese un cambio di passo morale a tutta la nazione. Per tutta risposta, un anno dopo gli americani scelsero Reagan, il suo ottimismo e la sua idea dell’America come “città che splende sulla collina”.

A risultare fatale per la sua presidenza fu però soprattutto la crisi degli ostaggi. I diplomatici e cittadini americani sequestrati nel novembre 1979 nell’ambasciata americana a Teheran furono la sfida che segnò tutto il suo ultimo anno di presidenza. Un tentativo di blitz per liberarli nell’aprile 1980 finì in disastro, con otto militari americani morti in un elicottero precipitato. Il regime degli ayatollah si prese gioco di Carter e dell’America per mesi, durante i quali si rafforzò il prestigio di Khomeini e crollò quello della Casa Bianca. L’ultimo affronto degli iraniani a Carter fu la decisione di rilasciare gli ostaggi il 20 gennaio 1981, poche ore dopo l’insediamento di Reagan alla presidenza. Nei decenni successivi, Carter è stato una sorta di inviato speciale diplomatico un po’ su tutti gli scenari del mondo. Le sue missioni di pace hanno interessato il Medio Oriente, l’Asia e vari paesi sudamericani. Si è occupato di diritti umani in Sudafrica e in vari paesi autoritari, ha negoziato la liberazione di ostaggi e ha parlato di diritti umani e pace a ogni grande evento internazionale. Ma in America, dopo la fina della sua presidenza, è rimasto politicamente poco influente e tenuto ai margini da un partito democratico che ha impiegato dodici anni a riprendersi dalla sua sconfitta, con l’arrivo di Bill Clinton alla Casa Bianca negli anni Novanta. Nel ventunesimo secolo, Carter ha appoggiato Barack Obama ma non è mai stato un convinto sostenitore di Hillary Clinton e Joe Biden, ai quali preferiva Bernie Sanders come potenziale presidente. Con Trump, che ha sempre considerato poco i suoi predecessori alla presidenza, non c’è mai stata alcuna simpatia. Ma il neoeletto quarantasettesimo presidente gli ha reso l’onore delle armi dopo la notizia della sua scomparsa: “Le sfide che Jimmy ha affrontato come presidente arrivarono in un momento chiave per il nostro paese e lui fece tutto quanto era in suo potere per migliorare le vite degli americani. Per questo, gli dobbiamo tutti gratitudine”.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.