Quando nei partiti sapevano leggere e scrivere e frequentavano le librerie

Sindacalisti e amministratori locali non si improvvisavano, venivano mandati a studiare alle Frattocchie e altre scuole di partito. Gianni Cervetti, uno dei “cavalli di razza” del defunto Pci, ricorda “I ragazzi di via Rovello”

“Quando li valent’uomini scrivono, è manifesto indicio che non possono operare”, dice Paolo Sarpi in una lettera del 16 novembre 1612 all’amico ugonotto Jean Hotman de Villiers, ambasciatore di Enrico IV e gran negoziatore di paci nell’Europa travagliata da guerre di successione e di religione. Quelli erano tempi duri, atroci. L’uno e l’altro dovevano stare molto attenti. La famiglia dell’Hotman era scampata per il rotto della cuffia al massacro degli ugonotti francesi nella notte di San Bartolomeo. Le sue teorie sulla pace universale in Europa era costretto a pubblicarle sotto mentito nome: Nicodemus Turlupinus de Turlupinus. Il padre servita veneziano aveva cercato anche lui di fare politica. Ma mal glien’era incolto. Subì diversi attentati, al pugnale e al veleno, da parte dell’Inquisizione. Sarebbe certamente finito sul rogo se non fosse stato protetto dalla Repubblica di Venezia. La forzata inazione politica gli consentì di scrivere e tramandarci un capolavoro di storiografia politica quale la Istoria del Concilio tridentino.

Scrivono, e si divertono a scrivere e a divertirci, si potrebbe parafrasare a proposito di Gianni Cervetti, politico di grande levatura, uno dei “cavalli di razza” del defunto Pci. E’ da tempo impossibilitato ad operare in politica. Causa l’età non più tenera. E, prima ancora, causa un incidente giudiziario di epoca Tangentopoli (da cui fu pienamente assolto, con complimenti del pubblico ministero). Ad abbandonarlo, anzi dargli addosso, furono, in quei tempi remoti, non tanto gli avversari ma molti compagni di partito. Non per questo è rimasto inoperoso. Tutt’altro. Si occupa di libri, di musica, e molta altra cultura. De Piante editore ha appena pubblicato una raccolta di colti divertissement dal titolo I ragazzi di via Rovello. Racconti di passioni e di rimembranze.

Via Rovello è una strada di Milano, a mezza distanza tra Piazza del Duomo e Piazza Castello. Vi si affaccia una delle grandi istituzioni culturali della città, il mitico Piccolo teatro di Giorgio Strehler e Paolo Grassi. In via Rovello, giusto di fronte al Piccolo teatro, era ubicata la libreria antiquaria di Mario Scognamiglio. Aveva avuto a suo tempo frequentatori illustri, tra cui Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Poi divenne sede di un club di bibliofili, l’Aldus Club, da Aldo Manuzio, lo stampatore del Cinquecento. Fu presieduto da Leonardo Sciascia, poi da Umberto Eco, infine dal nostro Cervetti. Sono questi alcuni dei “ragazzi di via Rovello”, che si incontravano di tanto in tanto nella libreria e si scambiavano dotti divertissement.

Il termine divertissement non deve ingannare. Non si tratta di baggianate elitarie. La politica c’entra, eccome. Uno dei saggi più gustosi è dedicato a “Gianni Schicchi e i falsadori di ogni tempo”. Gianni Scicchi è il personaggio fiorentino che Dante mette nella bolgia de barattieri e dei falsari, tra seconda parte del XXIX e l’intero XXX canto dell’Inferno. Giusto prima dei traditori, i peggiori di tutti. Due ombre si rincorrono furiose azzannandosi l’un l’altra. “Quel folletto è Gianni Schicchi e va rabbioso altrui così conciando”, spiega al poeta un altro degli ospiti del girone infernale. Il danno recato ai concittadini dai falsari che deprezzano, inflazionano la moneta è del tutto simile a quello recato da chi evade le tasse. E poco importa che il falsario, il falsificatore di monete, l’evasore fiscale, il diffusore di notizie false, l’imbroglione insomma, sia simpatico, sappia parlare bene, farsi benvolere.

Gianni Schicchi, più ancora che da Dante, è stato reso celebre dall’opera breve di Puccini che porta il suo nome. E viene in genere rappresentata in un trittico, assieme al Suor Angelica e al Tabarro. Il suo misfatto è: “falsificare in sé Buoso Donati, testando”, cioè impersonare il defunto per falsarne il testamento. Gianni Schicchi non è però un falsario qualsiasi. E’ geniale. Non si può che ammirarlo. Fa rabbrividire l’idea di quel che gli farebbero giudici spietati e noiosi nel caso la sua marachella venisse scoperta. Per giunta, sempre in Puccini, delinque non per sé ma, come dire, perché tiene famiglia. Solo in seguito alle insistenze della figlioletta. Lei, poverina, vuole sposarsi, e ha bisogno della dote. Un capolavoro l’aria “O mio babbino caro….”. Con quale personaggio (o personaggi) dei nostri tempi funziona l’analogia? Ai lettori l’ardua sentenza.

Un altro capitolo (“Trasmigrazioni di parole. Giochetti vari tra il serio e il faceto”) tratta filologicamente dei primi versi del Canto XXV in cui Dante parla di un altro fiorentino suo contemporaneo, il ladro Vanni Fucci. Colto, nell’atto blasfemo di squadrare “amendue le fiche” al Cielo. La filologia porta Cervetti a disquisire di fico e di fica, di turpiloquio, della Lombardia medievale e i suoi banchieri, spaziando tra molte lingue, quella russa compresa. Lo fa con raffinata ironia e autoironia, cosa che manca totalmente – salvo pochissime eccezioni, tra cui Pierluigi Bersani – nei talk show televisivi tra i quali faccio zapping ogni sera, addormentandomi regolarmente. Da notare che Cervetti si guarda bene dallo strumentalizzare Dante (o Machiavelli, o altri grandi) per iscriverlo al proprio partito, come fece poco tempo fu un’ormai ex ministro della Cultura. E’ un fan di Dante per quel che è. Lo ama da filologo, amante delle parole e del loro significato, non per fare propaganda. Non per niente, da bibliofilo, ha messo insieme una delle maggiori collezioni private in Italia di edizioni e di commenti danteschi.

Ho molte ragioni di nostalgia e di rimpianto per il vecchio Pci. Anche se so bene che nostalgie e rimpianti lasciano il tempo che trovano. Un intellettuale che nel vecchio Pci non era amato, anzi ne fu espulso per “indegnità” (perché omosessuale), Pier Paolo Pasolini, veniva accusato con facilità di essere passatista, se non reazionario. Era uno che rimpiangeva il mondo contadino, le lucciole, caldeggiava l’austerità, la decrescita. In una lettera aperta all’amico Calvino (altro grandissimo intellettuale), poi pubblicata negli Scritti corsari, polemizza con Maurizio Ferrara (padre del fondatore di questo giornale): “Caro Calvino, Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’‘età dell’oro’, tu dici che rimpiango ‘l’Italietta’: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio”. Il quale Maurizio Ferrara, oltre ad essere stato un bravo giornalista (fu corrispondente de l’Unità a Mosca) era un raffinato intellettuale. Suoi sono I sonetti rossi di un figlio illegittimo del Belli. Raccolti in volume negli anni ‘70 col titolo Er compromesso rivoluzzionario, di Anonimo Romano. Da Giuseppe Gioacchino Belli, responsabile della censura del Papa-Re di giorno, grande poeta ironico e libero a tempo perso, aveva preso, oltre al dialetto romanesco l’irriverenza e la spregiudicatezza assoluta nei confronti del potere, compreso il potere del suo datore di lavoro.

Ebbene sì, a costo di farmi rimproverare come fu rimproverato Pasolini, io rimpiango il Pci in cui si sapeva leggere e scrivere. Si leggevano e si conoscevano i classici. Si discuteva – è vero talvolta a vanvera – ma continuando a studiare, non limitandosi a ripetere formule trite, a fare propaganda per partito preso. Gramsci era di formazione filologo. Nei Quaderni del carcere mette la sua cultura, le sue sterminate letture, la sua intelligenza al servizio del cercare di capire il perché della Grande sconfitta della sinistra. Forse non è un caso che tra chi cercò di comprendere i meccanismi della catastrofe ci siano pensatori raffinati, le cui opere sono incompiute, frammentarie, esattamente come quella di Gramsci: Walter Benjamin e Victor Klemperer, ebreo berlinese e autore di Lingua Tertii imperii, diario filologico sul linguaggio del Terzo Reich.

Lo diceva già Confucio: non c’è di peggio, niente genera più confusione che non saper dar alle cose il loro nome, fare di tutto un fascio, dare dei conservatori ai fascisti e del fascista ai conservatori, confondere rivoluzionari e reazionari, populisti e progressisti.


So due o tre cose del vecchio Pci. Ero ancora ragazzino, non avevo vent’anni, che Emilio Sereni volle che andassi a fare il redattore capo di Critica marxista, allora da lui diretta. Ero affascinato dalla sua cultura sterminata, dai milioni di ritagli e di schede su carta velina, da lui vergate in fitta calligrafia. Computer e Google erano di là da venire. Le schede gli permettevano di scrivere saggi eruditissimi, su argomenti vari e improbabili tipo “La nomenclatura del cavallo nella steppa eurasiatica”, il passaggio dei napoletani da mangiacavoli a mangiamaccheroni, le tecniche di coltivazione, la storia del paesaggio in Italia.

I fratelli Sereni avevano del fanatismo nel DNA. Come molti ebrei della loro generazione. Enzo divenne sionista, fu paracadutato in Italia con la missione di salvare gli ebrei. Fu catturato dai nazisti, dopo atroci torture finì in campo di sterminio. Emilio invece divenne comunista, anzi stalinista. Pur essendo stato negli anni ‘30 anche lui torturato, e condannato a morte in quanto sospetto menscevico, dalla polizia politica staliniana. Non per questo aveva perso la fede in Stalin e nell’Urss. Ricordo di quando Gerardo Chiaromonte (che pure era, con Giorgio Napolitano, uno dei suoi “pupilli”) salì in redazione a criticare un articolo in cui Sereni aveva scritto della “spinta propulsiva” mondiale della Rivoluzione d’Ottobre. “Non capisco, critichiamo l’URSS e poi scriviamo questa roba!”. Cervetti era stato mandato dal partito, interrompendo gli studi di medicina, a studiare economia in Unione sovietica. Era l’epoca del tentativo di riforma di Krusciov. Conosce bene il russo e i russi. Della sua esperienza racconta nell’autobiografico Il ragazzo del secolo scorso, pubblicato da Bompiani. Poi fu lui l’uomo incaricato da Berlinguer di recidere il cordone ombelicale da cui affluiva al Pci l’“Oro di Mosca”. E’ rimasto uno capace di dare del dittatore e del macellaio a Putin. Fu lui a candidare Altiero Spinelli, a dare al Pci l’impronta europeista.

Mi è capitato di seguire, da resocontista per l’Unità, le riunioni del Comitato centrale in cui Paolo Bufalini polemizzava a colpi di bigliettini scritti con la stilografica azzurra in cui citava a memoria versi di Orazio e di Tommaso Campanella. In cui il normalista Alessandro Natta correggeva gli strafalcioni dei sentenziatori maccheronici. Il vizio, o se si preferisce il vezzo colto, veniva da lontano. Gramsci in carcere e Togliatti a Mosca dialogavano, tramite un altro grande intellettuale non da poco, l’economista di Cambridge Piero Sraffa, su cose tanto lontane dall’attualità politica da far pensare che si trattasse di una sorta di codice segreto. O forse no. Era passione. Non esibizione. La loro era una cultura profondamente italiana. Erano molto più patrioti loro, comunisti finiti esuli in Russia, di chi si professa oggi tale a destra. Nelle memorie di Giulio Ceretti, Con Togliatti e Thorez : quarant’anni di lotte politiche, si legge che, quando sia lui che Togliatti erano funzionari del Comintern, e nel 1941, dopo l’attacco tedesco all’Urss, nel timore che le armate naziste stessero per prendere Mosca, furono evacuati a Ufa, negli Urali, sostenevano accesissime discussioni sulla Mandragola di Machiavelli.

C’erano molte e diverse culture, o “anime” che dir si voglia, nel vecchio Pci. Unità in una grande diversità, come preconizzò uno dei padri del Risorgimento, Cesare Correnti, altro personaggio caro a Cervetti. L’anima “storicista”, togliattiana, era decisamente prevalente. I catto-comunisti erano i più integralisti, spocchiosi, moraleggianti. Giorgio Amendola era bollato come “la destra”. Suo padre era stato un antifascista liberale. Giorgio Amendola propose ad un certo punto il “Partito unico dei lavoratori”, che riunificasse comunisti, socialisti e socialdemocratici. Ma i socialisti del Psiup, alcuni dei quali sarebbero confluiti nel Pci, erano incomparabilmente più filosovietici di lui, e anche di Sereni. Li chiamavano “carristi”, perché sostenevano l’intervento in Cecoslovacchia.

Emanuele Macaluso, altro leader storico dei “miglioristi”, era un totus politicus. Aldo Tortorella, come lui stesso racconta in una recente bella intervista ad Antonio Gnoli su Robinson, veniva da una scuola filosofica diversa, quella degli allievi di Antonio Banfi, aperta a Husserl, a Kérenyi, alla psicanalisi. Era succeduto a Napolitano come responsabile della cultura quando in direzione gli capitò di dover difendere l’editore Einaudi sotto accusa per aver deciso di pubblicare le opere di Friedrich Nietzsche. La cosa è un po’ surreale. E’ del tutto evidente che a un partito politico non dovrebbe interessare nulla di quel che un editore decide o non decide di pubblicare. Il più critico era Gian Carlo Pajetta. Tortorella lo zittì facendogli notare che sua madre Elvira era stata avida lettrice di Nietzsche. Pajetta era insopportabile per la sua aggressività caratteriale. Ma anche lui si lasciava sedurre dalla cultura. Venne a New York quando facevo il corrispondente in America. Fu lui a trascinarmi all’Istituto italiano di cultura dove Claudio Magris presentava l’edizione americana del suo Danubio.

Leggevano, studiavano anche i quadri di estrazione operaia, o bracciantile. Sindacalisti e amministratori locali non si improvvisavano, venivano mandati a studiare alle Frattocchie e altre scuole di partito. Le feste de l’Unità erano molto meglio di quelle di Atreju. Mi spiace dirlo, ma il Fratelli d’Italia della Meloni è forse l’unico partito che ha mantenuto una base strutturata, di militanza capillare, di massa. Ma la loro preparazione di quadri capaci di governare e amministrare è, per dirla con un eufemismo, deficiente. La mia amicizia con Gianni Cervetti risale a molti decenni fa. Ci legavano passioni comuni. Forse la sua umanità, il suo rispetto del prossimo. Anche degli avversari.

Forse la comune mancanza di carisma, il comune grigiore. Forse anche l’essere cresciuti lui nell’osteria dei suoi genitori a porta Magenta, io nel negozietto di abbigliamento dei miei in Via Larga, alle spalle del Duomo. Fu lui a rovinarmi la vita chiedendomi di venire a lavorare nel Pci a Milano. Mi aveva seguito una bella ragazza che avevo sposato a Roma. Faceva e fa ancora la psicanalista. Amava il sole, il cielo azzurro. La nebbia, il freddo, il dover prendere ogni mattina alle 5 il treno delle Ferrovie Nord per andare a Varese, credo avrebbero distrutto qualsiasi rapporto. Tanto più che io invece tornavo a casa ogni notte alle ore piccole, da riunioni in una o l’altra delle più sperdute sezioni della provincia. Quando passai ad occuparmi delle fabbriche che stavano divenendo terreno di coltura delle Brigate rosse (oggigiorno molti operai votano per la Lega di Salvini o per Fratelli d’Italia), poi di nomine nelle banche, arrivai alla conclusione che la politica di partito non era il mio mestiere. Cervetti cercò di convincermi del contrario. Mi salvò Tortorella. Finii con l’accettare la proposta di andare a lavorare a l’Unità, che allora lui dirigeva. Di quel giornale non voglio parlare. Mi fa male al cuore se penso alla fine che ha fatto.

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