Il Giubileo di Francesco tra le macerie di un mondo finito in pezzi

Con l’apertura della Porta Santa nella basilica di San Pietro è iniziato l’Anno santo, dedicato alla speranza. Che non è quel generico “andrà tutto bene” di pandemica memoria. Com’è diverso il mondo da quel lontano 2000, quando la principale preoccupazione era il “Millennium bug”

Incedeva lento nella fredda notte dicembrina, il vecchio Giovanni Paolo II. Piegato dalla malattia e dall’età, avanzava verso la Porta Santa. S’udiva solo, sui marmi, il colpo ritmato del bastone pastorale, quello con il Cristo che piega il braccio orizzontale della croce, realizzato da Lello Scorzelli per Paolo VI. Natale del 1999, il Terzo millennio era dietro quella porta, con il suo carico di speranze e aspettative. Non era passato poi troppo tempo dalla “fine della storia” decretata con troppa baldanza da Francis Fukuyama e dai suoi cantori, convinti che ormai tutto si fosse compiuto e che dopo il crollo delle ideologie e dei fanatismi, dei muri e delle cortine, poco fuoco covasse sotto le braci di un Novecento che aveva devastato il mondo e fatto temere che l’apocalisse non fosse una mera speculazione biblica. Nulla, si diceva, avrebbe potuto superare il Male del Secolo, e pazienza per lo scontro di civiltà prospettato da Samuel Huntington. L’uomo aveva visto l’abisso: dopo Auschwitz e i gulag, il genocidio degli armeni e quello in Ruanda, le atomiche sul Giappone, il Vietnam e le rivoluzioni in nome di Dio che anziché la libertà avevano portato ghetti e burqa, niente poteva reggere al confronto. C’erano stati gli accordi di Camp David, le strette di mano e le foto tra i sorrisi, ammantati da spirito quasi kantiano. Certo, la guerra aveva rifatto capolino nell’Europa riappacificata dopo gli orrori novecenteschi, i Balcani vedevano ancora i raid sulla Serbia che strangolava il Kosovo, considerato roba sua. In Africa le bombe avevano fatto strage presso le ambasciate americane in Kenya e Tanzania, ma il conflitto tra nazioni e religioni era tema riservato a dotte riflessioni, simposi e seminari ad hoc. Piccoli errori nella Storia, come sempre accaduto nelle epoche precedenti. Si dibatteva di radici giudaico-cristiane dell’Europa, come se il tema fosse davvero cogente e attuale, avvertito dai popoli e dalle loro coscienze. Gli appelli per le masse affamate che interpellano il cuore dei ricchi parevano discorsi d’altri tempi, un misto fra rivendicazioni post coloniali, memoriali d’epoca vittoriana e appelli della Chiesa che si faceva pellegrina fra i poveri e gli scartati.

“Ogni anno giubilare è come un invito a una festa nuziale. Accorriamo tutti, dalle diverse Chiese e comunità ecclesiali sparse per il mondo, verso la festa che si prepara”, scriveva Giovanni Paolo II nella Bolla d’indizione. Festa, speranza, nozze. Un mondo che entrava, in quel Terzo millennio, con ottimismo. Quel che teneva sveglia la gente, all’epoca, era il “millennium bug”, il terrore di perdere i dati sugli ingombranti computer, di vedere le macchine spegnersi di botto al cambio di data. “Anno 2000, prima sfida dai computer. Millennium bug: milioni di persone mobilitate per evitare il blocco informatico”, titolava a sei colonne il Corriere della Sera. Si riducevano i voli e i collegamenti ferroviari, si parlava della “minaccia di virus elettronici”, si tratteneva il respiro aspettando di capire cosa sarebbe accaduto dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda, allo scoccare della fatidica cifra tonda, quella con i tre zeri messi l’uno dopo l’altro. E se il computer non funzionerà più? Altro che Gaza e Israele, Libano o Siria. Per non parlare di Georgia e Ucraina. La Russia faceva notizia per l’addio del giocondo Boris Eltsin, quello che faceva scompisciare Bill Clinton mentre dava Mosca in mano agli oligarchi che poi l’avrebbero accompagnato alla porta favorendo chissà quanto indirettamente l’arrivo di un giovane ex agente del Kgb venuto da San Pietroburgo. La Terra Santa che vedeva la pace a un passo e il Papa che nella Bolla scriveva “possa il Giubileo favorire un ulteriore passo nel dialogo reciproco fino a quando un giorno, tutti insieme – ebrei, cristiani e musulmani – ci scambieremo a Gerusalemme il saluto della pace”. “Novecento addio”, titolava il Mattino di Napoli, alla stregua di un urlo liberatorio per il secolo delle guerre mondiali che se ne andava per sempre. Il Giubileo era il portone d’ingresso al nuovo. Al nuovo secolo, al nuovo millennio, al nuovo mondo. Di globalizzazione si parlava, per lo più in senso positivo, se ne vedevano i lati positivi anziché quelli negativi, le storture che negli anni successivi si sarebbero fatte largo in un dibattito pubblico a ogni modo più povero e svilente. Il Giubileo fermava il tempo e consacrava il passaggio d’epoca. Le Torri gemelle svettavano nello skyline di Manhattan.

C’era attesa, man mano che ci si avvicinava all’apertura della Porta Santa: “L’attuale pontificato sin dal primo documento parla del Grande Giubileo in modo esplicito, invitando a vivere il periodo di attesa come un nuovo avvento”, scriveva Wojtyla nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente, aggiungendo che “non si vuole certo indulgere a un nuovo millenarismo, come da parte di qualcuno si fece allo scadere del primo millennio; si vuole invece suscitare una particolare sensibilità per tutto ciò che lo Spirito dice alla Chiesa e alle Chiese, come pure alle singole persone attraverso i carismi al servizio dell’intera comunità. Si intende sottolineare ciò che lo Spirito suggerisce alle varie comunità, dalle più piccole, come la famiglia, sino alle più grandi come le nazioni e le organizzazioni internazionali, senza trascurare le culture, le civiltà e le sane tradizioni. L’umanità, nonostante le apparenze, continua ad attendere la rivelazione dei figli di Dio e vive di tale speranza come nel travaglio del parto”. Nella fase preparatoria tutto, sottolineava il Papa, “dovrà mirare all’obiettivo prioritario del Giubileo che è il rinvigorimento della fede e della testimonianza dei cristiani. E’ necessario, pertanto, suscitare in ogni fedele un vero anelito alla santità, un desiderio forte di conversione e di rinnovamento personale in un clima di sempre più intensa preghiera e di solidale accoglienza del prossimo, specialmente quello più bisognoso”. Giubileo che per definizione doveva essere “grande”: “Quanto al contenuto, questo Grande Giubileo sarà, in un certo senso, uguale a ogni altro. Ma sarà, al tempo stesso, diverso e di ogni altro più grande. La Chiesa infatti rispetta le misure del tempo: ore, giorni, anni, secoli. Sotto questo aspetto essa cammina al passo con ogni uomo, rendendo consapevole ciascuno di come ognuna di queste misure sia intrisa della presenza di Dio e della sua azione salvifica. In questo spirito la Chiesa gioisce, rende grazie, chiede perdono, presentando suppliche al Signore della storia e delle coscienze umane. Tra le suppliche più ardenti di questa ora eccezionale, all’avvicinarsi del nuovo millennio, la Chiesa implora dal Signore che cresca l’unità tra tutti i cristiani delle diverse confessioni fino al raggiungimento della piena comunione. Esprimo l’auspicio che il Giubileo sia l’occasione propizia di una fruttuosa collaborazione nella messa in comune delle tante cose che ci uniscono e che sono certamente di più di quelle che ci dividono”.

Venticinque anni dopo, una guerra dopo l’altra, attentati terroristici nel cuore d’Europa, fede spenta e generale disinteresse per il fatto religioso (almeno in occidente), la Bolla d’indizione del Giubileo ha altri toni. Il tema è la speranza, che non è il generico “andrà tutto bene” di pandemica memoria. Non è il conforto intimo davanti alla paura e al mistero insondabile. Osserva il sociologo Sergio Belardinelli: “Il Giubileo del 2000 fu il Giubileo dell’incarnazione del verbo, rivolto a cristiani che, per nulla appesantiti da duemila anni di storia, si apprestavano a entrare nel Terzo millennio ‘rinfrancati dalla consapevolezza di recare al mondo la luce vera, Cristo Signore’. Sembrava insomma che il mondo fosse quasi prossimo a lasciarsi alle spalle il peggio della sua storia. Oggi di quel Giubileo resta invece l’immagine grandiosa e dolente di Giovanni Paolo II che a fatica cerca di aprire la Porta Santa. Quasi un presagio che grava come un macigno sulla cupa stanchezza dei nostri tempi”. Lo si vede e lo si sente: questa è un’altra faccenda. “Quando il prossimo 24 dicembre Papa Francesco aprirà il Giubileo del 2025 avrà negli occhi e nel cuore l’immagine di un mondo ‘che si trova immerso nella tragedia della guerra’, della superficialità, dello sconforto e spesso della disperazione. Per questo la sua Bolla d’indizione è accoratamente incentrata sull’essenzialità del messaggio cristiano: la speranza di Cristo che non delude e che può vincere ogni male. Un’essenzialità quasi insolita per Francesco, una sorta di spes contra spem per ‘non cadere nella tentazione di ritenersi sopraffatti dal male e dalla violenza’”, aggiunge Belardinelli.

La speranza cristiana è più di un banale ottimismo. La speranza, scriveva Georges Bernanos, “è un atto eroico di cui i codardi e gli stupidi non sono capaci; per loro è l’illusione a tenere il posto della speranza”. Adrien Candiard, autore fra l’altro di La speranza non è ottimismo: Note di fiducia per cristiani disorientati (Emi, 2021), osservava che l’incomprensione sorge dal fatto che si confonde la vera speranza con le speranze umane: “Per difendere l’autentica speranza, Geremia non ha cessato di subire le persecuzioni di coloro che se ne facevano i campioni, di quanti dicevano ‘Non abbiate paura, andrà tutto bene!’ mentre il profeta annunciava disgrazie su disgrazie. La speranza cristiana non richiede ottimismo, richiede coraggio. Bisogna accettare di rinunciare all’illusione, alle false speranze, a tutte le false speranze”. Scrive Papa Francesco: “Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza”.

Il mondo che si prepara al Giubileo è quello della Terza guerra mondiale a pezzi, sfinito dai conflitti che sorgono ora dopo ora da un capo all’altro del globo e che pian piano – ma neanche poi così tanto piano – si stanno saldando, rendendo autentica la profezia che Francesco fece agli albori del pontificato, quando gli esperti nel campo non vedevano legami fra la corsa califfale nel vicino oriente, gli appetiti putiniani fra il Dnepr e il mar d’Azov, e l’attenzione di Xi per Taiwan. Il cielo è grigio metallo, sembra quasi il panorama apocalittico che fa da sfondo alla Strada di Cormac McCarthy: pochi sopravvissuti in un mondo irriconoscibile, popolato da uomini ridotti a bestie. “Il primo segno di speranza – prosegue la Bolla – si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza. Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subìto? Com’è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? E’ troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno ‘operatori di pace saranno chiamati figli di Dio’. L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura”. Ancora, “guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita”.

Come è lontano lo slancio giovanpaolino della fine degli anni Novanta, quanto diversi sono i termini e i toni del messaggio. Qui il virus non è quello informatico, ma l’assuefazione alla guerra in un mondo, almeno nella sua parte occidentale, che alla guerra preparato non è. Diceva al Foglio il cardinale Matteo Zuppi: “Ricorrono gli ottant’anni dei momenti peggiori della Seconda guerra mondiale, l’inferno europeo. Una guerra mondiale ma interamente europea. Ma è anche una guerra da cui – insieme all’Olocausto cui è legata – è nata l’Europa. Abbiamo perso la memoria, cioè quella consapevolezza originaria. Immaginare la pace ha significato immaginare l’Europa. La generazione che l’ha costruita poi non ha fatto manutenzione e, soprattutto, non ha fatto un investimento per il futuro”.

Certo, poi ci sono i simboli. Lo storico delle religioni Daniele Menozzi ricorda che “nella Chiesa cattolica l’istituto del Giubileo si caratterizza, fin dalle origini, per la concessione delle indulgenze, che, consentendo al fedele la remissione dei peccati commessi, apre la via al suo ravvedimento. Oltre al significato strettamente religioso assume dunque un più generale significato simbolico: implica una svolta rispetto al passato, un cambiamento di vita, un nuovo inizio. Questo aspetto assume particolare rilievo, quando, nel corso dell’età contemporanea, la Chiesa ha cominciato a legare l’indizione dei giubilei non solo alla vita del singolo credente, ma anche alla vita collettiva. La fine della tradizionale società cristiana comportava che il Giubileo, senza abbandonare le ricadute personali e interiori, mirasse anche a sollecitare i cattolici a inserirsi nel mondo per cambiarne condizioni giudicate incoerenti con la loro fede. Ci si può allora chiedere – continua Menozzi, il cui ultimo libro, da poco uscito, è Lezioni di Storia della Chiesa (Morcelliana) – quale sia la valutazione espressa su questo piano nella bolla Spes non confundit con cui Papa Francesco ha indetto il Giubileo del 2025. Una risposta viene dal confronto con il precedente Giubileo ordinario, quello del 2000. Quell’evento fu segnato dalla richiesta di pentimento per le deviazioni dall’insegnamento evangelico che nel corso della storia avevano macchiato i comportamenti dei fedeli. Tali deviazioni erano sostanzialmente individuate in atteggiamenti non rispondenti alle acquisizioni del dialogo tra cattolicesimo e mondo moderno promosso dal Concilio Vaticano II: violazioni della libertà religiosa; mancanza di rispetto delle autonome culture indigene; utilizzazione della violenza, anche bellica, a scopi apostolici; negazione dei fondamentali diritti della persona. Non è difficile ricondurre questa linea al contesto dell’epoca. La fine dell’ordine bipolare, che aveva fatto seguito al crollo del comunismo, apriva la strada a una presenza della Chiesa nel mondo segnata dalla sua riconciliazione con quella modernità liberal-democratica con cui si era a lungo scontrata. Restavano certo zone di attrito: Wojtyla denunciava la deriva ‘totalitaria’ delle democrazie insensibili ai ‘valori non negoziabili’. Tuttavia riteneva che l’ammodernamento della Chiesa, prodotto dalla sua revisione del passato, ne avrebbe favorito l’incontro con la cultura politica dell’occidente. In tal modo essa – dice ancora Daniele Menozzi – avrebbe contribuito a spegnere i focolai di tensione – le prime manifestazioni del terrorismo islamista, l’emergere di nuovi fondamentalismi religiosi, il risorgere di violenti nazionalismi – che ostacolavano la pacifica espansione sul globo di un nuovo ordine mondiale fondato sui diritti umani”. Un quadro, anche sul piano geopolitico, che pare compromesso, lontano dagli auspici di venticinque anni fa. Aggiunge Menozzi: “Il terrorismo islamista – per quanto sia stato sconfitto un suo primo tentativo di ergersi a stato – palesa periodicamente la sua forza; i nazionalismi, saldandosi con i populismi, hanno trovato una inaspettata capacità di diffusione internazionale; la nascita e il successo di democrazie illiberali evidenziano una profonda crisi interna allo stesso occidente. Se, all’inizio del pontificato, Francesco denunciava il profilarsi di una Terza guerra mondiale a pezzi, oggi si avvicina lo spettro dell’apocalisse nucleare. In questo contesto il ruolo della Chiesa muta profondamente: essa non è più chiamata a sostenere la diffusione di un modello politico, ma ad alimentare la speranza che è ancora possibile costruire una pacifica convivenza civile”.

Resta allora da guardare alla Bolla d’indizione del Giubileo di Francesco che, “sollecitando i credenti ad approfondire la speranza cristiana della resurrezione, indica anche la via di una presenza della Chiesa nel mondo d’oggi in grado di rispondere ai suoi più urgenti bisogni. Essa ravviva infatti la fiducia che c’è ancora tempo per cambiare le cose. I credenti che, attraverso la remissione dei peccati, intraprendono la strada della metanoia, richiamano anche l’angosciata società attuale a una speranza: tutti gli uomini possono lasciarsi alle spalle gli errori che li hanno portati sull’orlo dell’abisso e avviare così l’edificazione di una pacifica comunità internazionale”, chiosa lo storico.

Ma chi è disposto ad ascoltare la voce della Chiesa, divisa pure al suo interno fra correnti e fazioni che davanti alle macerie del mondo paiono fuori dal tempo? Ai governanti Francesco ha già dimostrato di credere poco, non ripone in loro grande fiducia al di là della naturale e doverosa cortesia. L’ha detto lui stesso, quando denunciò anni fa la mancanza di grandi leader, mentre gli si domandava cosa pensasse dell’Europa narcolettica, divenuta una “nonna” che non ricorda più neppure quale fosse il suo spirito originario, incapace di riconoscere la propria anima. Quell’Europa finita per diventare un’algida Babele burocratica da cui, anche nella visione del Pontefice, sono scaturiti indirettamente i vari nazionalismi di ritorno, i populismi più sfrenati e gli innamoramenti per gli autocrati petto in fuori e parole d’ordine chiarissime, può raccogliere la sfida in nome della speranza? Può farlo l’America travolta dalle sue contraddizioni, guidata fra poco da un Trump per il quale – per dirla con Angelo Panebianco sul Corriere della Sera – “la categoria ‘occidente’ non significa nulla”? Come si può concretizzare la presenza tangibile della Chiesa di cui parla Menozzi in un mondo segnato da conflitti, steccati e perdita sempre più evidente di fede? Un anno fa, alla vigilia di Natale, l’arcivescovo maggiore di Kyiv, Sviatoslav Shevchuk, diceva al Foglio che “l’evento del Natale è la speranza del popolo ucraino. In questo periodo ‘dell’ora buia’, come l’ha definito Papa Francesco, abbiamo bisogno della speranza data dal sapere che Dio è con noi”. E’ la speranza che rende lieti i cristiani della Nigeria, nonostante le stragi compiute contro le loro comunità fin sugli altari delle chiese; è la speranza che a Natale faceva esultare di gioia i cristiani della piana di Ninive quando ancora non avevano neppure una chiesa dove radunarsi per pregare, dopo il passaggio del flagello islamista.


Diceva il cardinale Giacomo Biffi che “la speranza capace di rianimare l’esistenza e ridarle significato non può stare racchiusa nelle prospettive terrene. Per quel che si riferisce alla nostra avventura di quaggiù, nessuno può illudersi: sappiamo tutti benissimo che la vita più fortunata e felice si concluderà, nel migliore dei casi, con l’umiliante declino della vecchiaia e con la catastrofe della morte che vanifica tutto. L’uomo – per essere ragionevolmente motivato a impegnarsi, a lottare, a superare i momenti di sconforto – ha bisogno di qualcosa di più che un disegno mondano. La speranza che noi proclamiamo, la speranza che ci viene dalla fede, è l’unica che non delude, è la sola che regge sino alla fine, proprio perché dischiude il nostro animo sull’eterno”.

Ucraina e Nigeria, Siria e Iraq, e poi il Nicaragua. Forse è da queste periferie sempre trascurate dalle dotte analisi sul destino della Chiesa e del sentire religioso, e che più patiscono gli sconvolgimenti di questo tempo, che si può ripartire per invertire il corso delle cose, che oggi pare ineluttabile. Il Giubileo della speranza è l’occasione propizia. Dopotutto, come sosteneva Benedetto XVI, “la fede si oppone decisamente alla rassegnazione”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.

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