Sul secondo mandato del presidente grava l’ombra dell’imprevedibilità di un potere ondeggiante tra aggressivo ideologismo dell’America First e pragmatismo sornione, esibizionismo, narcisismo
Il problema con Trump è che il passaggio dalla ripulsa politica e culturale (anche estetica) all’analisi politica è un’impresa difficile. Necessaria, ma estremamente difficile. Su tutto campeggiano l’Ucraina e la relazione speciale con Putin, ovviamente. Ma poi ci sono le mattane sue e del suo instabile fronte al Congresso sulla spesa pubblica federale, con il problema dello shutdown e la formazione di una maggioranza a lui contraria anche con i voti dei parlamentari repubblicani ultratrumpisti. Poi ci sono i curdi in Siria, insediati accanto a duemila soldati Usa, minacciati dalla Turchia, nervosa per la nuova dislocazione russa in Libia, dalle parti del generale Haftar. Il ricordo di Kabul, dove Biden condivise con Trump, autore dell’accordo con i talebani, la responsabilità della disfatta, non è svanito. Poi c’è l’incipiente nevrosi distruttiva di un eone libero come Elon Musk, capace di registrare sui social il giudizio sulla Germania in base all’attivismo fanatico di una influencer della AfD.
Con le nomine le più bizzarre e inquietanti, salvo eccezioni, si è visto che anche il secondo mandato del presidente appena eletto si inizia con il tentativo di forzare l’equilibrio dei poteri, puntando su un controllo di tipo dominante del Congresso e del Senato in particolare, reintroducendo di nuovo a palazzo le mosse sconclusionate del ballo di San Vito già contratto dal team vincente sette o otto anni fa. L’enormità e l’implausibilità del programma annunciato di rimpatrio forzato per milioni di immigrati illegali si confrontano con le carovane in arrivo dal Messico, sul confine meridionale. Eccetera. L’unico elemento stabile è l’appoggio senza riserve a Israele, di cui la dichiarazione trumpiana sul necessario rilascio degli ostaggi prima del suo arrivo alla Casa Bianca, pena serie conseguenze, è una testimonianza sensibile e preziosa.
Intanto però, per l’Ucraina e la relazione con l’Europa, non è chiaro quale possa essere il suo obiettivo finale. Non si capisce se il segno che Trump vuole e può imprimere alla svolta negoziale e a una eventuale possibilità di tregua sia l’abbandono a Putin della palma di una vittoria campale e l’incrinatura radicale con l’Europa e la Nato, tutte cose facilmente travestibili dall’immagine della pace raggiunta, o un disegno meno prevedibile in base alle scelte del recente passato in merito al (mancato) sostegno a Zelensky. Può essere che nelle coordinate di un deal trumpiano sia contemplato un qualche prudente aggiramento del problema attraverso la Cina, usando le leve del commercio e dei dazi e dell’asse di sicurezza nel Pacifico per imporre una tregua e un risultato bilanciato.
Su tutto grava l’ombra dell’imprevedibilità di un potere ondeggiante tra aggressivo ideologismo dell’America First e pragmatismo sornione, esibizionismo, narcisismo. L’analisi è utile, serve a interpretare le cose, ma non può tutto, specie con uno come Trump. Il primo mandato fu l’effetto sorpresa, il trascinamento nella forma di un movimento di massa di devastante critica delle élite di governo, ma ancora con un gravame costituito da ciò che restava del Partito repubblicano e di pezzi dell’establishment recuperati e impiegati per l’esercizio degli ampi poteri esecutivi del nuovo presidente.
Ora alla Casa Bianca arriva l’uomo che ha rifiutato le regole democratiche, rigettando il risultato elettorale e scatenando l’inferno per rovesciarlo, e che nonostante la sua radicalità inaudita, anche in campagna elettorale, l’ha avuta vinta in tutte le istituzioni che contano, perfino con il favore, che gli era mancato nel 2016, del voto popolare. Un altro uomo, un altro presidente, un’altra corte di consiglieri e punti d’appoggio, sinistramente illuminati dal ruolo in apparenza giocoso e irregolare di Musk e dalla resa senza condizioni del big business che conta, quello tecnocratico e finanziario.