Il viaggio di Singer in Israele: “Un paese nuovo in cui è antico perfino il futuro”

Un libro a metà tra letteratura e guida turistica, attraverso il quale l’autore polacco-statunitense attraversa una Tel Aviv in cui “tutto è nuovo e in costruzione” e ricostruisce il proprio passato

“Mosé non ha avuto il privilegio di entrare in questo paese. Herzl non ha avuto la fortuna di veder realizzato il suo sogno. Invece io, che non ho alzato un dito per costruire questo stato, ci entro come un generoso parente acquisito”. Viaggio in Israele di Isaac B. Singer (Giuntina, 177 pp., 18 euro) è una conversazione a puntate coi lettori del quotidiano yiddish newyorchese Forverts. Lo scrittore si rivolge loro come se facesse lunghe telefonate a ciascuno, telefonate in cui un po’ racconta e un po’ commenta, divaga e si interroga, fa affermazioni da guida turistica e da filosofo. Racconta con dovizia ogni suo spostamento – “In Israele bisogna disabituarsi alle lunghe distanze, se si viaggia troppo a lungo in un’unica direzione si finisce tra gli arabi”. Patisce il clima e si fa aria di continuo – “fa caldo, scirocco dal deserto. Lo sa Iddio come facciano gli ebrei e gli arabi ad avere la forza di farsi la guerra con questo caldo”. Attraversa una Tel Aviv in cui “tutto è nuovo e in costruzione” e ricostruisce il proprio passato, mettendosi in contatto con parenti e amici che non incontrava dai primi anni Venti in Polonia – “ciò che Omero sentiva per Troia io lo sentivo per Varsavia,” scriverà in una lettera riportata nella bellissima biografia di Florence Noiville. E si gode l’ebraicità come uno che sia parte in causa fino a un certo punto, salvo, qua e là, scalare vette lirico-mistiche che non gli si direbbe congeniali e meno che mai frequenti, per lo meno se si pensa ai suoi romanzi e al loro franco scetticismo, a quel senso della vita in forma sempre interrogativa.

“Guidando siamo entrati nella Storia. E’ qui che è caduto Saul. ‘E’ qui che ha avuto luogo l’ultimo atto di un dramma divino. Guardo questa gobba rocciosa nello stesso modo in cui l’ha guardata il primo re degli ebrei”. Un po’ letteratura e un po’ Lonely Planet: divertente, per contrasto, il lungo articolo antilirico del 24 ottobre, costruito per risposte a domande del genere “come sono gli alberghi? Quanti soldi bisogna avere per viverci? La gente è gentile? Come va in giro vestita? Come sono gli affitti? Quanto costa il cibo?”.

Il 1955 è un anno significativo per Isaac Singer, e anche per il figlio Israel Zamir, che poco prima di questo viaggio lo era andato a trovare a New York, dove mai era stato. I due sono, di fatto, due sconosciuti. Isaac è un padre per corrispondenza, americano mai del tutto americano, ebreo laterale, inevitabilmente polacco ma, più di ogni altra cosa, “uno straniero in genere”, uno comunque lontano, uno che, di quel figlio che accoglie al porto di New York con dolorosa freddezza, “non sa cosa farsene” (userà proprio queste parole, Israel Zamir, per raccontare quell’esperienza). Il ragazzo, la sua antitesi: un socialista progressista e sionista che viveva in un kibbutz – lo stesso che, con la guida della nuora, Isaac visita durante il viaggio di cui scrive; conoscerà anche i consuoceri. “Che aspetto ha il kibbutz? E’ la combinazione di una fattoria e di un villaggio vacanze”.

Ma la luce: è la luce che Singer racconta continuamente, è alla luce che non riesce a resistere, come se tutto fosse circonfuso da Qualcosa. “Come sembra pulita Haifa vista dalla nave. Piena di luce e leggera”. La chiarità stordisce, sembra arrivare da un altro mondo. “Dal sole escono fiamme rosse, come se nei paraggi ci fosse un incendio. Vi sembra che nel mondo sia avvenuto un qualche cambiamento, che sia stata compiuta una nuova creazione”. E la natura – spartito arcaico, brivido ulteriore – non è da meno. “Oh, il cielo è così cosparso di stelle! Non è un cielo, ma un libro della Cabbalà”. L’estasi si fa creaturale. “Ogni uccello canta la fede, la terra la esala insieme al caldo”. A un certo punto Singer interroga una colomba. “Sa di essere in Israele? A cosa pensa?”. Ma non gli manca la lucidità di tornare a terra e di capire che il destino di Israele è anche di tenere insieme gente che fa fatica a stare insieme. Un paese nuovo in cui “è antico perfino il futuro”.

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