Niente concerto di capodanno a Roma per il rapper. Ma intanto i bad boys sono in testa alle classifiche e chiudono sold out nei palchi più importanti. E le denunce di apologia della violenza grondano di troppa ipocrisia
Il rapporto dei rapper italiani –incontrastati padroni del nostro mercato musicale – coi concetti di “bene” e “male” si complica sempre più. Da un lato la molta acqua passata sotto i ponti ha reso scontate e consumate le rime e i relativi atteggiamenti, quelli in cui rivendicazione, disprezzo, esibizione del lusso, machismo da giornalino porno e cafonate sparse avevano generato un linguaggio e uno stile che aveva trovato un suo formato, perfino una parvenza di identità “rebel” e schiere di seguaci, per lo più all’insegna del “facciamo casino”. La fase successiva ha messo in mostra una spiccata attitudine giustificazionista: i rapper, soprattutto quelli dell’area milanese con varie percentuali di sangue arabo nelle vene, dicono certe cose e si descrivono in quel modo perché sono il prodotto di un profondo disagio sociale che dovrebbe farci riflettere sulle condizioni di vita e integrazione vigenti nel nostro paese, senza trascurare il fatto che loro – Simba La Rue, Rondo da Sosa, Baby Gang e la folta schiera di epigoni – hanno presto mangiato la foglia: più si collocavano “contro”, senza margini di trattativa e con rivendicazioni irricevibili sotto tutti gli aspetti, più facevano rumore e ricevevano ammirazione.
Ammirazione di tipi diversi, da quella imitativa fino a quella vagamente intellettualizzata, che comunque li identificava come ultima forma di resistenza alle regole dell’omologazione, per quanto la maggioranza delle cose messe nei loro pezzi fosse indifendibile, al di fuori della posse del muretto e dei loro strabilianti desideri. Col passare del tempo il quadro si è strutturato: le prime onde di autocritica seguite alle denunce, agli arresti, ai daspo e alla galera, hanno fatto capire che l’armistizio era alle viste, sebbene il seme di quella “cattiveria” fosse ormai piantato in profondità nell’humus giovanile. Il mercato non vedeva l’ora che venisse concessa ai cattivi ragazzi quella patente di presentabilità che ne avviasse lo sfruttamento al di fuori delle sottoculture, il seguito di ammiratori s’ingrossava e i dischi che costoro pubblicavano erano al di sopra delle aspettative, capaci di completare il quadro, renderlo vivido, attribuendogli una parvenza artistica e rappresentativa. Insomma i bad boys, traversata la fase dell’intransigenza, sembravano sulla via di assumere una posizione nella pop culture dell’Italia ’24.
Un fatto che ha prodotto effetti nei paraggi musicali: ecco un Fedez che virava la propria figura pubblica da rapper in pensione e papà di frugoletti vip a monello ritrovato, con amicizie poco raccomandabili e condotte pessime. L’effetto? Il Richelieu del nazionalpopolare Carlo Conti lo invita a Sanremo. Il tutto alla fine di un’estate in cui un altro cattivo soggetto come Tony Effe, ex membro della deprecata Dark Polo Gang, si è affermato come nuovo Califano, cantando di sesso e samba, ragazze, gioielli e vida loca, e nel farlo si è rivelato il personaggio più divertente dell’estate, uno di cui speri che tua figlia non si accorga, ma invece puoi star sicuro che sarà così, perché a modo suo è irresistibile.
Ed ecco che il comune di Roma lo invita al Circo Massimo per il festone di Capodanno e apriti cielo, le interrogazioni in Consiglio, le prese di posizione, la denuncia dell’apologia della violenza di cui sono intrise le sue canzoni – plausibile, se non grondasse fin troppa ipocrisia, sorvolando sugli imbarazzi del sindaco Gualtieri. All’indomani del trionfo di Baby Gang al Forum d’Assago, sold out per il rapper italo-marocchino che ha radunato sul quel venerabile palco il gotha delle classifiche italiane, da Ghali a Sfera a Fibra, adesso che lo stigma si è disciolto e d’improvviso la riprovazione si è voltata in consenso, adesso che Geolier, il neo-Maradona di Napoli, dice che sì, con le pistole ci giocava, ma le cose sono più intricate e puoi capirle se sei cresciuto tra peccato e redenzione, adesso viene rivisitato il senso di un’etica che non odori di rinnegato, ma ammetta la presentabilità di questo nuovo modello d’artista musicale. Perché costoro non possono pretendere di essere bravi ragazzi timorati delle istituzioni, obbediscono a un loro codice, ma sanno di incarnare un prodotto e comunque non si oppongono a una proposta di integrazione che conviene a tutti.
Non a caso, con la visibile intenzione di non perdere il treno, il veterano Marracash se ne esce con un disco chiamato “È Finita la Pace”, il cui tema di fondo è l’ipocrisia. L’ipocrisia nazionale della propaganda e dei falsi maestri, ma anche l’ipocrisia di quella scena rap di cui lui è uno dei Re Magi. I suoi ragionamenti parlano di quel che siamo noi e di quel che sono loro che hanno inventato questa musica e di cosa stanno diventando col tempo che passa. Tutto ciò che si accetta di fare, i compromessi, le rinunce, i paletti oltre i quali una reputazione va in frantumi e si perde la faccia guardandosi allo specchio. Perché la questione è la solita: fin dove ci si può spingere perché la propria vita non sia un fallimento? E quanta assuefazione ha prodotto la droga chiamata “successo”, con ciò che si porta dietro? Il rap italiano è in cerca di una risposta. Lo faceva anche Alberto Sordi, molto tempo fa, quando si poneva domande del genere e alla fine si assolveva in “Una Vita Difficile”, manifesto insuperato sull’arte di arrangiarsi.