Sino a quando nel quartiere resterà in abbandono un asilo nido consegnato all’amministrazione comunale nel 1977 e mai aperto, tra incendi e varie devastazioni, non basteranno cento mille Rosalie ribelli a invocare il miracolo alla Santuzza. Ma almeno ci ricorderanno che in un mondo di ombre la fantasia è un bene prezioso
Toponomastica palermitana. Ovvero un perverso compromesso tra cronaca, storia e tran tran cittadino. Ci si può dare appuntamento alla pizzeria nel posto in cui hanno ammazzato Borsellino, si prendeva un caffè nel bar in cui hanno sparato a Boris Giuliano poi l’hanno chiuso e si può andare in quello pochi metri più avanti, vicino a dove hanno sparato a Libero Grassi. D’estate ci si vede a Mondello, dietro l’angolo in cui uccisero Salvo Lima. Io stesso abito in una via che è un dedalo di numeri civici e per farla breve indico come punto di riferimento la casa dell’agguato al commissario Ninni Cassarà. A Palermo il morto non solo insegna a piangere, ma aiuta a non perdersi. Accomuna il centro e la periferia, unisce i lembi sociali.
La parola emergente delle ultime settimane è francese e ha a che fare proprio con la città, la periferia, i lembi sociali. E nella sua evocazione italiana anche con un morto. Di banlieue si è parlato per i fatti di Corvetto, dove per la fine tragica del diciannovenne egiziano Ramy Elgaml al termine di un inseguimento coi carabinieri l’intero quartiere milanese è stato teatro di manifestazioni violente. In questo caso il richiamo al degrado delle banlieue, intesi come sobborghi parigini, è stato forzato come forzato è un accadimento particolare al quale si vuole dare a ogni costo una chiave di lettura universale: tipo quando per similitudine o contrappasso, preso un modello vi si adatta la realtà. Ma l’appiglio di Corvetto è prezioso per la nostra storia perché tutti quanti abbiamo una periferia, ma non tutte le periferie sono margini. Mentre a Milano si difende l’immagine della città dalla mascariata di nuova banlieue brandendo l’orgoglio di una comunità che va avanti nonostante i problemi di una periferia, c’è un’altra città come Palermo dove l’incubo degli abitanti non si annida fuori dalle mura ma è tutto nel degrado che scarnifica il centro storico.
A Palermo l’incubo è tutto nel degrado che scarnifica il centro storico. Nel sobborgo zoppicante invece corrono le idee più nuove e temerarie
Altro che quartieri lontani. A Palermo la periferia coi suoi disastri è in realtà il cuore della città. Ed è invece nel sobborgo zoppicante che corrono le idee più nuove e temerarie. Anche qui serve la toponomastica da Grand Macabre. La borgata in questione si chiama Sperone e il quartiere di riferimento è Settecannoli. Siamo nella zona sud-est della città, quella dello strapotere dei mafiosi del quartiere limitrofo, Brancaccio: i fratelli Graviano, con un ruolo da protagonisti nelle stragi del ‘92 e ‘93. Qui è stato ucciso don Pino Puglisi, il prete antimafia proclamato beato undici anni fa, prima vittima di mafia riconosciuta dalla Chiesa come martire. Lo Sperone non è l’eden, anzi. Non è un luogo da cartolina, anzi. E’ una gigantesca centrale di spaccio di droga. Una grande distesa di nulla in cui fioriscono palazzoni di edilizia popolare tutti uguali, tutti con pareti vuote e lisce: deserti verticali di cemento. C’è un plesso scolastico intitolato a Sandro Pertini. Dodici anni fa stava per chiudere. Poi arriva una preside, Antonella Di Bartolo, che mette in campo l’unica arma che può consentirsi, ma che è anche la più difficile da usare. Le idee. Lei e un gruppo di insegnanti si rimboccano le maniche e vanno a cercare in strada gli alunni mancanti, li prendono a casa: una strana forma di rastrellamento affettivo. I genitori, prima diffidenti, cominciano a fidarsi. Ed è lì che cambia tutto. Oggi intorno all’Istituto comprensivo Sperone-Pertini ruota un sistema che non è solo didattico, ma sociale e culturale. Un sistema che trasforma le idee da arma in risorsa. Primo risultato: in dodici anni il tasso di dispersione scolastica è passato dal 27,3 all’uno per cento. Nonostante il generale decremento demografico si è assistito alla moltiplicazione delle classi, da 600 alunni si è arrivati a oltre 1.200.
Dispersione scolastica passata dal 27,3 all’uno per cento: Antonella Di Bartolo, preside dell’Istituto Pertini, è andata a prendere gli alunni a casa
Grazie a un’inusitata collaborazione tra privati e con un minimo sostegno pubblico nel grigio dello Sperone arrivano i colori. Come in un’opera di Mordillo una squadra di omini comincia a montare impalcature, a sguainare i pennelli. Le tele ci sono già, le fornisce la dittatura urbanistica dei luoghi: i deserti verticali ovvero le pareti di quegli immensi palazzi. Idee. Il primo murale arriva nel 2019, si intitola “Sangu e latti”, lo realizza l’artista Igor Scalisi Palminteri e si rifà a un antico detto di buoni auspici, un augurio di buona salute e prosperità: l’immagine è quella di una donna che allatta il suo bambino. Seguiranno altri 13 murales: gioventù selvatica, inni alla pace, visioni futuriste, fumetti distopici, la diversità in primo piano, Franco e Ciccio, il missionario laico Biagio Conte, la Natività del Caravaggio. Tutti sospesi a decine di metri di altezza eppure pare di poterli toccare, giganteschi a tinte forti eppure non invadenti. Idee. Dove farli, i murales? Non aveva senso piazzarli lungo la linea del tram, avrebbe incoraggiato i safari fotografici, la curiosità scatta e fuggi. Invece no, bisogna andarseli a cercare, girare per le contrade dello Sperone per ammirarli.
Nel frattempo, più in là Palermo vivacchia nel caos ordinario. Il centro storico, soprattutto la sera, è nelle mani di baby gang, spacciatori di crack e violenti di ogni genere (due ragazzi uccisi in discoteca nei mesi scorsi). La polizia municipale ha fatto sapere che all’organico mancano oltre 800 agenti. Il ministro Piantedosi ne ha promessi cento. Ma non è solo la criminalità che toglie respiro alla Palermo turistica, che ne appanna la vetrina. La centrale via Maqueda, la cui pedonalizzazione avrebbe dovuto farne il salotto della città, è invece il retrobottega di un’enorme cucina a cielo aperto. I Quattro Canti con l’asse del Cassaro sono un suk senza tradizione. Tutto intorno, una sterminata Paninolandia dove i pochi ristoratori che cercano di raccontare la tradizione sono soffocati dallo strapotere del cibo spazzatura uguale in tutte le peggiori città del mondo. Addirittura, tre mesi fa, Vito Minacapelli, titolare di un negozio di ottica e presidente dell’associazione “Maqueda futura”, è arrivato a chiedere per provocazione la riapertura della strada alle auto: “Forse così la zona sarebbe più controllata. Non vedo alternative contro la violenza e lo spaccio”.
Idee. Mentre Palermo sonnecchia, lo Sperone ribolle. Quanto a criminalità ed emergenze assortite il quartiere non ha nulla da invidiare al centro storico, ma non aspetta di lasciarsi travolgere dall’indolenza. E’ così che nasce la moltiplicazione di qualcosa di unico: la santa patrona. Nel quattrocentesimo anniversario del ritrovamento delle spoglie della Santuzza che col miracolo dei miracoli salvarono la città dalla peste, la periferia con epicentro nella Scuola Sperone-Pertini s’inventa una festa tutta sua: le Rosalie Ribelli. Per mesi insegnanti, genitori, volontari, l’“Associazione Arte di crescere”, quella degli “Amici dei musei siciliani” e altri cittadini illuminati lavorano a un progetto multimediale e, a suo modo, rivoluzionario. Un nuovo murale di Giulio Rosk battezza la rivoluzione gentile delle figlie moderne di Santa Rosalia: e sono appunto due le Rosalie ritratte, una più classica, iconografica, l’altra molto più giovane, contemporanea, che si tura il naso come atto di dissenso verso i nemici del cambiamento. Non basta perché a Palermo non c’è festa della Santa senza carro trionfale.
I murales piazzati non lungo la linea del tram, bisogna andare a cercarli. La festa delle Rosalie Ribelli che ha restaurato il carro di Kounellis
Idee. C’è un vecchio carro abbandonato e semidistrutto. Lo ha costruito per il Festino del 2007 l’artista greco Jannis Kounellis. Finita la sfilata, l’opera è stata smembrata, depredata e ovviamente abbandonata a Villa Giulia mentre altri pezzi, come l’albero e la vela, sono finiti sepolti dalla polvere e dal guano in un magazzino dei Cantieri culturali della Zisa. La statua della Santa invece ha trovato rifugio a Palazzo Alliata di Villafranca. Perché non riprenderlo, restaurarlo, e rimetterlo in sesto? E’ così che con il benestare e l’assistenza del comune di Palermo – che nella periferia ha mostrato di avere i suoi risvegli – il carro è risorto e ha ricominciato a macinare metri di passione e devozione accompagnato da 400 Rosalie e Rosalii Ribelli, alunne e alunni della scuola. Alla fine del corteo gli è stata trovata anche una degna destinazione. Non più l’umiliante dimenticatoio nel quale era rimasto per diciassette anni di pietre vento e sterpaglie, ma la comunità dello Sperone, proprio sotto il murale che ne celebre l’essenza, che lo adotta e se ne prende cura. Sin qui la storia sembrerebbe una favola a lieto fine. Le idee conquistano il mondo e così sia. In verità le cose stanno molto diversamente.
Le nostre periferie possono essere luoghi bellissimi ma estremi, violenti ma consolanti. Cosa fa la differenza?
Probabilmente tutto dipende dalla capacità di catalizzare attenzioni che non siano storte. Il segreto dello Sperone è nella determinazione delle donne che hanno dato aria al futuro dei loro figli. I mariti spacciano e delinquono, non tutti per carità. Ma in quelle famiglie si è inoculato un virus nuovo, quello del coinvolgimento emotivo, della motivazione che va oltre la visione angusta del “poveri siamo e poveri moriremo”. Lo Sperone come altre borgate di Palermo non è a misura di bambino, eppure i bambini si sono ricavati uno spazio. Molte delle loro mamme, cresciute in un microcosmo di prospettive buie, hanno iniziato a studiare coi loro figli e si sono prese la licenza di terza media. E poi c’è il mare che non c’è. Racconta Antonella Di Bartolo: “Lo Sperone di Palermo è un luogo da decenni deprivato di possibilità e prospettive, strumentalmente tenuto in ombra e lontano da sguardi indiscreti da un’influente minoranza di suoi abitanti che nel silenzio e nell’oscurità operano e speculano: 1,8 milioni di euro all’anno per lo spaccio di droga, precisamente. Eppure la borgata ha delle potenzialità immense, gode di una luce naturale straordinaria e abbagliante, si affaccia sul mare”.
Se a Palermo dici mare, uno pensa alla spiaggia di Mondello. Non certo allo Sperone. “A oggi quella che sta di fronte a noi è una distesa d’acqua da cui tenersi lontani, non balneabile a causa di un collettore fognario guasto o incompiuto o chissà cos’altro da decenni”, continua Di Bartolo. “E così, quello che fino agli anni 60 era ‘il mare di Palermo’, luogo di villeggiatura, di ristoranti per palati fini e di rinomati stabilimenti balneari, adesso è metafora del limite, della deprivazione. Negare il mare è terribile. Significa negare l’orizzonte, lo sguardo verso l’immaginazione. Pensando al presente e soprattutto al futuro dei nostri bambini e delle nostre bambine, siamo consapevoli che il lavoro nelle classi non basta, i cortei e le cerimonie non bastano; riteniamo irrinunciabile essere fucina di pensiero e di crescita per l’intero quartiere, e puntare su servizi, arte, e possibilità di lavoro legali che vengono dal recupero della costa e dalla restituzione del mare”.
Il problema del mare negato: fino agli anni 60 quello dello Sperone era il mare di Palermo, ora niente balneazione a causa di un collettore fognario
Nel secolo scorso il mare nella zona est della città è stato fonte economica per le cosche mafiose. Era grazie al mare che Masino Spadaro era divenuto il re del contrabbando di sigarette ancora prima di assurgere al ruolo di boss della Kalsa. Al Maxiprocesso si definì “il Gianni Agnelli di Palermo, perché offro lavoro a centinaia di giovani”. Dopo le sigarette per logica consecutio economico-criminale passò alla droga. Un maresciallo dei carabinieri con gran fiuto investigativo, Vito Ievolella, intuì tutto e si mise di traverso con un rapporto che smascherava i criminali. Spadaro lo fece uccidere e per questo fu condannato. Morì ai domiciliari a Perugia senza rivedere il suo mare. La toponomastica palermitana oggi indica un preciso angolo della piazza della Kalsa come il posto dei “gemelli Fuma”, due venditori di sigarette di contrabbando senza un cognome un tempo noti solo per la loro abbanniata, cioè lo slogan commerciale urlato in strada. Appunto: “Fuma!”.
La Kalsa, che non è distante dallo Sperone e da Brancaccio, è una periferia che ha scelto di omologarsi alla vocazione di street food del centro storico, pur essendo ricca di storia e di opere d’arte: da Palazzo Abatellis ai mosaici bizantini della Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, alla Chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Proprio qualche giorno fa il Comune di Palermo ha aggiornato il Piano triennale delle opere pubbliche che mette in circolo 40 milioni di euro per edilizia, verde e periferie. E’ la miccia delle speranze generalmente sublimate in slogan tipo “cambieremo il look della città”, anche se non si finisce di sperare in qualcosa di diverso, finalmente concreto. La lezione dello Sperone, della banlieue scampata, va in un’altra direzione non antitetica, ma complementare. Senza le idee non ci sono bandi, concorsi, appalti che reggano. Sino a quando nel quartiere resterà in abbandono un asilo nido consegnato all’amministrazione comunale nel 1977 e mai aperto, tra incendi e varie devastazioni, non basteranno cento mille Rosalie ribelli a invocare il miracolo alla Santuzza. Ma almeno ci ricorderanno che in un mondo di ombre la fantasia è un bene prezioso.