Tradotto in Italia il libro di Francis Dorleans, un carnevale di descrizioni degli ambienti nei quali si muovono personaggi dall’esistenza imprecisa, velleitaria, lussuosa
A Natale, ubbidendo a non si sa quale inesplicabile richiamo, ci affanniamo a comprare volumi esecrabili, palesemente ideati perché li si abbia in orrore – e mentre li compriamo si avventa su di noi la vergogna per la nostra immensa ebetudine. E tuttavia di fronte a quali, fra la miriade di titoli che a ogni fine d’anno si affollano fra gli scaffali delle librerie, abbiamo la capacità di opporre la grazia dell’indifferenza? Spesso a pochi. La concupiscenza libraria ci induce a praticare la virtù dell’adiaforia con troppa assoluta sofferenza per poterne fare un uso men che discreto. Anche se, una volta appagate le nostre brame, occorre ammettere che difficilmente si andrà al di là del risvolto: della «fossa che un autore si scava» – diceva Giuseppe Pontiggia –, «per esservi seppellito da chi non leggerà altro».
A finire in questo novero “Snob Society”, pubblicato nel 2009 da Flammarion con una copertina d’un sinuoso nero materico, che con zelo filologico o con disinvoltura blasée il mio libraio ha posto accanto all’edizione italiana ora pubblicata da Neri Pozza, parrebbe il candidato perfetto. Ma si sbaglierebbe. Certo, è un libro senza gravose angosce, senza indugi, con sommarie descrizioni degli ambienti nei quali si muovono personaggi dall’esistenza imprecisa, velleitaria, lussuosa, le cui forme e gesti «s’aggrappano a minuzie che magari non sono più inesistenti delle distinzioni dell’aristocrazia, ma, più oscure, più peculiari, suscitano maggiore stupore». Nondimeno, nell’accurata maniera con cui esso restituisce l’atmosfera di quella che Maury Paul definì col neologismo di “café society”, può riconoscersi una soavità che ha il prestigio di quell’artificiosità elementare che non serve a conoscere la realtà, ma a sfiorarla, a vederla senza l’imperfezione del vivere.
Dell’autore, Francis Dorléans, già apprezzato cronista di Vogue, avevo letto il ricordo di Patrick Mimouni, apparso su “La Règle du Jeu”, nell’estate del 2022. Quel cognome (e per certi amanti del bluff alla moda il cognome è molto più importante del danaro) non poteva ch’essere d’uno snob. Aveva infatti un che di rodomontesco, Dorléans. Faceva pensare all’omofona dinastia d’origine capetingia, ma, mancando dell’apostrofo, era in realtà privo di qualsiasi tipografia aristocratica. Ad accrescere la suggestione aveva allora certamente contribuito lo scoprire che Dorléans aveva dato mano ad una prosopografia dei grandi vanesi del Novecento. Mi ero riproposto di scorrerne le pagine, ma non prima di avere, sull’argomento, letto i “classici”: i “Mémoires” di Boni de Castellane e del principe Youssoupoff, il “Dictionnaire du snobisme” di Philippe Juillian, qualche passo almeno di “The Book of Snobs” di Thackeray…Altre letture, meno facoltative, s’erano però imposte, e quel regesto d’attori, scrittori, teste coronate, artisti e stilisti era stato dimenticato. Ma ecco che, accosto al recente “Anglais Excentriques” di Thierry Coudert, esso campeggia, nella briosa versione di Marina Visentin, fra le novità editoriali: un rappel cui è impossibile sottrarsi.
Lo si prende così infine a sfogliare, questo «carnevale di snob», dalla sintassi perlopiù allineativa e dal tono modulato sul linguaggio parlato, che di primo acchito fa pensare allo stile dei rotocalchi, al clamore di lacrime e smanie con cui essi indugiano sui protagonisti d’un orgia di lusso. Come avrebbe chiosato l’Arbasino de “La narcisata”, tutto concorre perché si partecipi ad «un’ingordissima randonnée fra il Kitsch del ’50 e il Kitsch del ’30 e viceversa». Il punto d’osservazione di Dorléans non è però quello del dandy da cui, con distacco e limpido gioco dell’intelligenza stil-critica, Arbasino scrutava «le sofisticate rarefazioni delle Follies», ma quello del pettegolezzo frivolo, del bracare civettuolo proprio dei conversatori da salotto, che non sono mai a corto di aneddoti, di ricordi personali, di digressioni opportune, di eufemismi salaci. Del resto, – è stato osservato – il dandy sta allo snob come Santa Teresa d’Avila sta ad una qualsiasi beghina. Cosicché non suscita troppa meraviglia che, nella postilla alle “Piccole vacanze”, di Radiguet si pregi la prescrizione, illustrata da Marcel Raymond, di acchiappare le immagini, montarle con il minor numero di parole possibile, cercando d’unire l’eleganza al libertinaggio, laddove, in “Snob Society”, dell’autore de “Il diavolo in corpo” si dice del sentimento che per lui provò Cocteau, e di come, alla sua morte, questi considerò «il suo dolore come prova d’un amore condiviso». Insomma, anziché Proust, Dorléans arieggia Liala. Ma se è vero – come ha sostenuto Mariolina Bertini – che per apprezzare oggi l’estetica grossolana e datata di Liala bisogna avere gusti un po’ perversi, per apprezzare l’opera di Dorléans occorrerà riconoscerla come l’occhio cieco d’uno specchio messo a disposizione dello snob, affinché possa, da spettatore, osservare la mimica d’un forsennata quête del fasto e dell’orpello. Lo snob, infatti, a nulla si mostra più sensibile che all’attenzione per la sua sfera di interessi; e nulla gli corrisponde di più (tanto grandi sono la sua paura dell’identità e il suo odio per l’oggettivo) d’una commedia ambientata in un universo artificiale, separato da infinita distanza da ogni vita che non sia cerimoniale e prestigiatoria.