Dai lirici greci a Bob Dylan, parole che rivelano verità universali. Le opere dei grandi autori come specchio dell’uomo: un legame tra passato, presente e infinito
Spesso amiamo certi libri perché vi troviamo pensieri che ci rivelano qualcosa di noi stessi che non eravamo stati in grado di articolare compiutamente. Pensieri e parole dirompenti, che appaiono tali perché ci sembra di averli pensati da sempre, sebbene solo in quel momento, in quella pagina, li ascoltiamo davvero per la prima volta. Ce li troviamo lì davanti esposti in maniera più chiara, potente, raffinata, evocativa di quanto noi saremmo mai stati in grado di fare. Così capita quando si leggono i lirici greci, le lettere di Seneca, le Confessioni di Agostino, Dante, Shakespeare, Dostoevskij, Camus, Bob Dylan, etc… giusto per citare qualcuno che, attraverso i millenni, ha avuto qualcosa da dire sull’esistenza di ciascuno di noi, di ogni uomo in ogni tempo, o forse dell’uomo in generale.
“L’uomo in generale”, lo sappiamo, è un concetto sfuggente. Cos’è “l’uomo in generale”? Nessuno l’ha mai visto. Esistono solo individui, soggetti che vivono la propria vita in comunità, in maniera necessariamente interdipendente ma in modo inevitabilmente separato. Siamo, in fin dei conti, tutti, un corpo-coscienza che “sta” solo, non esiste reale possibilità di mescolarsi ad altri, basta soffermarsi un attimo a pensarci e la cosa appare evidente. La maggior parte dell’esistenza di ciascuno non è altro che uno sforzo per uscire da questa separatezza, per cercare di capire e di farsi capire, così da trovare magari se stessi, o ciò che in maniera essenziale ci lega a tutti gli altri.
Eppure, le parole dei grandi autori che risuonano attraverso i secoli e ci parlano con prorompente verità sembrano deporre a favore dell’esistenza di un “uomo in generale”, di un elemento comune a tutti gli individui, di qualcosa che possa far dire che l’uomo in generale non è altro che questo essere che sa che “tutto passa”. Ma questo “tutto”, in realtà, non è niente altro che ciascuno di noi, singolarmente, con la nostra vita limitata tra un inizio di cui non abbiamo memoria e una fine di cui non sapremo mai. Ciascuno è perduto nella propria stessa esistenza. Tuttavia, se quelle parole classiche che riempiono i volumi che fanno parte del nostro cosiddetto patrimonio condiviso possono da un lato consolare, addolcire, arricchire le nostre esistenze, allo stesso tempo possono, però, sollecitare la terribile idea che la vita di ogni singolo non sia altro che un pensiero già pensato mille e più volte da altri. La possibilità che, in fin dei conti, non vi sia alcuna reale originalità di un nostro pensiero, di un nostro sguardo, di una nostra emozione, di una nostra frase. L’idea che non siamo altro che l’ennesima rifrazione di una eco diffusa, disciolta da sempre attraverso il vento. Eppure, non è questa la verità più certa di ciascuna vita? Non è forse questa la sua unica ripetibilità? Non è in questa contraddizione, unica ripetibilità, che sta una buona parte della verità della vita dell’uomo in generale e di ogni singolo in particolare?
Tutto ciò, ovviamente, non può riguardare solo le parole. Riguarda direttamente anche le cose, tanto quelle che troviamo fatte quanto quelle che produciamo. Nella breve prefazione alle “Settantacinque poesie” di Kavafis, Nelo Risi, riferendosi all’opera del grande poeta alessandrino, scrive: “Contemporaneità e passato sono così finemente intrecciati che non sai più se l’efebo descritto esce da un vicolo di Alessandria tra i tram e gli autobus o tra i carri e le bighe”. Allora la domanda non è più soltanto: dov’è la differenza tra le parole di un lirico greco del 600 a.C. e Bob Dylan? La domanda è anche, e di più: dove è il grado di separazione tra l’Odissea e i viaggi spaziali? Ossia, tutto ciò non si riferisce forse a uno spirito comune che muta rimanendo comunque sempre sé stesso? Questa assenza di separazione, però, rimanda a una realtà ancora più angosciante, al fatto cioè che non vi possa essere alcuna speranza, alcun Oltre in cui confidare, ma solo ripetizione, per quanto raccontata con parole sublimi, senza reale differenza.