In libreria “Il proprio tempo appreso col pensiero”, uno scritto postumo del padre dell’operaismo politico degli anni Sessanta, che riflette su libertà, autorità e il fallimento della sinistra nel leggere la storia. E che chiama a un dibattito politico urgente
Mario Tronti è conosciuto da gran parte degli intellettuali, e anche da una fetta della più vasta opinione pubblica, specie di sinistra, come il padre dell’operaismo politico degli anni Sessanta. Nel corso della sua lunga carriera, ha insegnato per molti anni, ha diretto il Centro per la riforma dello stato e si è anche cimentato con l’impegno politico diretto, come senatore per due legislature: è stato senza dubbio per molti un punto di riferimento. Il suo “Operai e capitale”, pubblicato nel lontano 1966, è un classico. Da qualche settimana, il Saggiatore ha pubblicato un suo scritto postumo (Tronti è morto nell’agosto del 2023 a 92 anni), volutamente rimasto tale per volontà dello stesso autore, il cui titolo è perfetto per sintetizzarne il contenuto: “Il proprio tempo appreso col pensiero”, a cura di Giulia Dettori (142 pp., € 16 euro).
In poche, ma dense, pagine, Tronti ripercorre in parte il suo itinerario intellettuale, la cui complessità rende effettivamente riduttiva l’etichetta che si ricordava. In questa sede, ci limitiamo a tre aspetti che emergono dalla lettura. Il primo è relativo all’attenzione che riserva alla dimensione antropologica quando auspica un progetto in grado istituzionalmente “di togliere potenzialità all’individuo borghese e dare centralità alla persona umana”. La scelta dei vocaboli non è casuale ed è bene ricordare che Tronti è stato uno dei cosiddetti “marxisti ratzingeriani”. Il secondo aspetto riguarda le élite. Innanzitutto, Tronti distingue l’umanità tra chi sta sotto e chi sta sopra. Ma, in verità, sostiene che la parola élite non si possa più usare, perché ormai compromessa e consumata dalla “rozza contrapposizione” con il popolo. Eppure, questo termine indica ancora un dato che non si può eludere e quindi si potrebbe riesumare un vocabolo simile; scrive infatti: “Perché la democrazia possa farsi potere del popolo per il popolo, ci sarebbe bisogno di un’aristocrazia intesa come potere dei migliori nell’interesse di tutti”. Che cos’era la classe operaia, si chiede Tronti, se non un’aristocrazia di popolo?
Il terzo aspetto non può dunque che riguardare la democrazia. In diversi passaggi del libro c’è una forte critica al ceto politico di sinistra per non aver saputo cogliere l’importanza degli eventi consumatisi tra l’89 e il 91. O meglio, per non aver saputo darne una lettura coerente con tutto ciò che fino ad allora la sinistra aveva professato, dunque i suoi esponenti vengono innanzitutto accusati di pigrizia intellettuale e opportunismo politico. Al di là di questo aspetto (che però dovrebbe forse far riflettere profondamente anche gli attuali vertici dei partiti di sinistra), più in generale Tronti non ha remore nel sostenere che l’attuale “meccanismo democratico di unica scelta dal basso non è sufficiente” e dunque “va corretto con un meccanismo di contemporanea scelta dall’alto”. In altre parole, è importante tornare a capire dov’è collocata l’autorità, invece di continuare a “lisciare il pelo della massa”. Non si evoca nulla di autoritario, anzi Tronti auspica la creazione di nuovi livelli di mediazione, dopo la crisi di quelli nati e sviluppati nel secolo scorso (in primis i partiti), soprattutto per tutelare la libertà, il cui esercizio “diventa sempre più difficile, più esteriore”. La deriva elettoralistica assunta dalla democrazia preoccupa molto Tronti e quindi invita a “salvare la libertà dalla democrazia reale” che, per lui, è come “salvare la rivoluzione dal socialismo reale”. Come? La strada suggerita è innanzitutto quella di negare che la democrazia sia oggi una pratica della libertà. Qui si aprirebbe un capitolo troppo ampio, che trova sviluppo nelle lucide suggestioni presenti in questo libro e chiama in causa anche chi non condivide tale impostazione e i suoi possibili sviluppi, perché le parole di Tronti sono un invito a un dibattito di parte, che quindi prevede una o più controparti. Insomma, è un libro che agevola il pensare politicamente. Ed è proprio ciò di cui sentiamo un gran bisogno.