Altro che ingresso in politica, Ruffini soffriva troppo

Il direttore dell’Agenzia delle entrate si è dimesso ieri per una frase di Meloni del 2023 che deve avergli macerato la coscienza anche la notte: “Meloni ha detto pizzo!”. “Meloni ha detto pizzo!”

Il direttore dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, nipote del cardinal Ruffini, figlio del ministro Ruffini, cresciuto sulle ginocchia di Sergio Mattarella, nonché fratello di Ruffini prefetto del dicastero per la comunicazione della Santa Sede, insomma uno qualunque, ieri mattina ha lasciato la sua poltrona all’Agenzia delle entrate. E questo malgrado il fatto che, con tutti quei nomi e quei parenti, egli avrebbe in realtà diritto ad almeno tre poltrone. Insomma si è dimesso dal prestigioso incarico che ricopriva sin dai tempi di Gentiloni, anche se fu Renzi a nominarlo a Equitalia, e per il quale era stato confermato poi pure dal governo Conte II, dal governo Draghi e infine anche dal governo Meloni. Insomma da tutti: destra, sinistra, populisti e tecnici. Eternità di foresta. Ma ora si è dimesso, dicevamo. E lo ha fatto con un’intervista al Corriere, giornale al quale Ruffini ha spiegato di non essersi dimesso perché vuole entrare in politica col centrosinistra, come hanno scritto certi quotidiani maliziosi. No. Nossignore. Niente affatto. Egli non è al “centro” di un progetto per il “centro” benedetto da Prodi, dalla Cei, dal Vaticano e dagli amici di famiglia. No. No. E ancora no. Guai a dirlo. Egli – anzi loro: cioè Ernesto, Maria e anche Ruffini – ha infatti spiegato al Corriere di essersi dimesso, tra le altre ragioni, perché due anni fa Giorgia Meloni aveva detto a Catania, durante un comizio elettorale, che “le tasse possono essere sentite come una forma di pizzo”. Parole scandalose che tutti ci ricordiamo. Solo che Ruffini ne ha sofferto più di tutti noi. Molto di più. Gli hanno macerato la coscienza. Sicché non possiamo che immaginarci in questi due anni il povero Ruffini che non ci dorme la notte. La frase sul pizzo lo rosola da dentro. Ribolle nella sua mente. Eccolo a letto, indossato il pigiama, sotto il crocifisso e il ritratto dello zio cardinale, che per due anni fatica a prendere sonno. “Meloni ha detto pizzo!”. “Meloni ha detto pizzo!”. Ma ve lo immaginate? Poveraccio. Sera dopo sera. Quale tortura. Che sofferenza. Che pena, anche quando Meloni intanto lo riconfermava all’Agenzia delle entrate. Per settecentotrentadue notti e giorni. Due anni di dolore. Ma per fortuna adesso si è liberato. Non ha annunciato che si presenta alle elezioni, questa è una volgarità, ma ha spiegato che “non mi era mai capitato di vedere pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di stato. Oppure di sentir dire che l’Agenzia delle entrate tiene in ostaggio le famiglie, come fosse un sequestratore. Ho taciuto sinora, per senso dello stato”. Ah, il senso dello stato! Ecco cos’era.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori “Fummo giovani soltanto allora”, la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.

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