Guardiola, Fonseca, Palladino e la dura legge dell’allenatore

Non sanno mai cosa aspettarsi, esposti come sono al pubblico giudizio. A loro spetta l’onore della vittoria, ma soprattutto l’onere della sconfitta. Se vincono, ha vinto soprattutto il gruppo, ma se perdono, ha perso soprattutto lui

Nel calcio si sbaglia spesso, e altrettanto spesso si perde. Lo ha ricordato recentemente Guardiola, uno che fino a un po’ di tempo fa non perdeva mai. Lucidamente si è messo in discussione, dopo l’ennesima sconfitta, dichiarando di aspettarsi qualsiasi cosa, anche un licenziamento. Guardiola, ne ho già scritto proprio sul nostro amato Foglio, ha contribuito a cambiare il calcio, dandoci dell’allenatore un’immagine celeste, quella di un dio dalla cui volontà dipende l’esito della partita. Ovviamente così non è, il calcio è una religione storta, dove la fede sta dalla parte di chi si illude, e poi, deluso, infanga qualsiasi dio, anche il più amato. Gli allenatori non sanno mai cosa aspettarsi, esposti come sono al pubblico giudizio. Vincono, e gli erigono una statua, perdono e la loro immagine si sbriciola sotto violenti colpi di piccone. Sono chiamati a scegliere, a difendersi, a motivare, a moderare i termini, a gestire i presidenti, rispondere ai procuratori, sopportando i familiari dei propri calciatori e i giornalisti, quelli bravi e quelli meno bravi, inopportunamente trattati come nemici.

Gli allenatori più scaltri sanno confrontarsi con il prossimo, difendendo la squadra, di cui sono un ostaggio. Se la squadra molla, nessun allenatore potrà mai sopravvivere. A volte succedono cose difficili da capire, o meglio da spiegare. Perché Fonseca è stato così severo dopo la vittoria contro la Stella Rossa? Il portoghese è un signore elegante e garbato, parla rotondo e morbido. Però accusa, leggermente fuori tempo, come un musicista distratto. Prima gli arbitri a Bergamo (boh), poi la squadra (ri boh). Che cosa ci vuol dire? Probabilmente nulla, si fa così quando si circola per strada senza sapere l’indirizzo, rischiando di mancare ad un appuntamento.

A Firenze c’è Palladino che sta facendo un lavoro eccezionale. Vince e crea, giocando un calcio artigianale, in accordo con le mille botteghe cittadine. Poi succede che un giorno non convoca l’ex capitano, Biraghi. Qualcuno si inalbera e minaccia. Come osi? È il classico procuratore che non accetta la storia, l’evolversi del tempo, lo stagionare delle botti. A prescindere da certe promesse poi mancate (se mai ci siano state), non è così che si rispetta la storia di un giocatore (Biraghi stesso) e di un allenatore. Palladino fa cose, alcune piacciono, alcune no, ma è importante che le faccia nell’interesse della squadra. È il compito di qualsiasi allenatore, a cui spetta l’onore della vittoria, ma soprattutto l’onere della sconfitta. Se vince, ha vinto soprattutto il gruppo, ma se perde, ha perso soprattutto lui. Lo sa Guardiola, lo sa Fonseca, lo sa Palladino, lo sanno tutti gli allenatori del mondo. Si chiama legge del mister, dura e senza via di scampo.

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