L’analisi pragmatica della politologa e autrice di numerosi libri sulla diaspora siriana, partendo da tre dati di fatto. Per la prima volta dopo cinquant’anni il futuro è nelle mani dei siriani
Nessuno sa di preciso cosa succederà in Siria dopo la caduta del regime di Bashar el Assad, nessuno sa se i proclami di tolleranza fatti sin qui dal gruppo Hayat Tahrir al Sham saranno rispettati e applicati o se rimarranno solo parole. E’ come se il percorso della Siria verso la pacificazione fosse solo a metà, ora resta la fase della ricostruzione. “Anche se non sappiamo cosa succederà da qui in poi, la mia opinione è che dobbiamo dare fiducia a Hayat Tahrir al Sham – dice al Foglio Wendy Pearlman, politologa della Northwestern University e studiosa di medioriente, autrice di numerosi libri sulla diaspora siriana – Lo scenario di fronte al quale ci troviamo era del tutto imprevedibile solo due settimane fa e quindi ogni previsione è del tutto prematura. Ma se non conosciamo il futuro, conosciamo il passato”.
“E nel passato ci sono tre dati di fatto: il primo è che non c’è più il regime di Assad, che era in assoluto lo scenario peggiore possibile. Il secondo è che l’esperienza del governo di Hayat Tahrir al Sham nella regione di Idlib, pur con le difficoltà e i limiti del caso, in parte conferma il progressivo allontanamento del gruppo dalle sue radici in Al Qaeda. Poi c’è il terzo dato di fatto: questo ribaltamento non è stato compiuto solo da Hayat Tahrir al Sham, ma da un’alleanza composita di gruppi, per lo più locali. Il fatto che Hayat Tahrir al Sham sia riuscito a costruire attorno a sè una coalizione così composita significa che ha dato ai singoli gruppi garanzie circa la costruzione di una nuova Siria, non più oppressa”.
Questo, secondo Pearlman, è il punto chiave: “Quando parliamo della Siria, dobbiamo sempre ricordare che, nel 2011, era un paese oppresso da uno dei regimi più sanguinari del mondo. Eppure, nonostante questo, trovarono la forza di organizzarsi e tentare una rivolta disperata e impensabile. Questo va sempre ricordato. Lo hanno fatto, possono farlo ancora. Se si sono ribellati a Assad difficilmente lasceranno passare un regime nuovo se questo si rivelasse repressivo”.
Un ruolo particolare nella costruzione della nuova Siria e del suo nuovo tessuto sociale potrebbero giocarlo i profughi della diaspora: parliamo di circa 13 milioni di persone. La maggior parte, circa 7 milioni, è fatta da sfollati all’interno del paese stesso. L’altra è composta da profughi in paesi non lontani dalla Siria, come Turchia e Libano. Solo una parte relativamente piccola è arrivata in Europa o negli Stati Uniti. Cosa sarà di loro? “Di nuovo è difficile e prematuro fare previsioni. Quello che possiamo dire, e che in parte già si sta verificando, è il rientro nelle città da parte degli sfollati. Molti, che negli scorsi anni sono stati costretti a lasciare Aleppo o Damasco ora stanno rientrando, anche se con molta cautela. Anche quelli rifugiatisi in Turchia e in Libano potrebbero voler tornare. E probabilmente anche alcuni di quelli che nel frattempo sono arrivati in occidente, anche se è evidente che esistono enormi problemi. E’ bene ricordare che in Siria più del 90 per cento della popolazione vive in estrema povertà. Il rientro dei rifugiati sarebbe un enorme valore aggiunto per la ricostruzione del paese e per garantire che davvero il suo futuro sia equo, rispettoso e pacificato come promesso da Hayat Tahrir al Sham. Questo perché chi ha trascorso questi anni all’estero, per quanto lo abbia fatto da rifugiato, ha acquisito nuove capacità e abilità, ha studiato, ha visto il mondo al di fuori della Siria, ha acquisito nuove reti sociali: nella diaspora siriana ci sono moltissimi talenti, conoscenze che potrebbero essere messe a frutto”.
Il ritorno nel paese della diaspora dipenderà anche dalla comunità internazionale e dall’occidente. “Il silenzio dell’occidente sulla questione siriana dal 2011 in poi è stato determinante. Questa volta, l’occidente ha l’occasione per riparare quell’errore e, per quanto paradossale possa suonare, il modo che ha per farlo, questa volta è tacere, chiamarsi fuori da un processo delicato che, per la prima volta dopo 50 anni, è nelle mani dei siriani. Quello che l’occidente può fare, questa volta, è sostenere dal punto di vista umanitario un paese stremato e ascoltare le richieste che, inevitabilmente, arriveranno dalla nuova autorità siriana. Ma resistere alla tentazione di guidare il processo politico”.