Mentre il governo rivede il sistema di incentivi, le grandi produzioni internazionali scelgono altre destinazioni. La fuga in Bulgaria del film sulla Callas è solo l’ultimo atto di un lungo periodo di incertezze. Così il sovranismo mette in ginocchio il cinema
Anni Quaranta del secolo scorso, a Città del Messico. Scampato a un raid antidroga a New Orleans, Lee trascorre il suo tempo nei locali della capitale messicana, dove incontra il giovane spacciatore Allerton e se ne invaghisce. Non facciamo gli spoiler, è la traccia del libro di William Burroughs dal quale è tratto il film “Queer” girato da Luca Guadagnino che uscirà in Italia a febbraio. Ma Città del Messico è a Cinecittà, lì è stata ricostruita e lì dovrebbe restare. Usiamo il condizionale perché tutto ormai è precario nell’italica città del cinema, nata, morta e resuscitata molte volte, che rischia di nuovo l’eclissi. Lì, negli studi romani di via Tuscolana doveva essere girato in gran parte anche “Maria”, il filmone sulla Callas con Angelina Jolie. Così sembrava in base alle intese con la società di produzione Fremantle (la stessa di “Queer” e di “M il figlio del secolo”, la serie tv su Mussolini tratta dal romanzo di Antonio Scurati e diretta da Joe Wright).
Invece “Maria” è andata in Bulgaria. Perché questo voltafaccia? La produzione dà una risposta molto semplice: non si poteva aspettare che il governo italiano decidesse che fare sul credito d’imposta. A Sofia non se la sono fatta scappare, del resto c’è ormai una guerra aperta per accaparrarsi le maggiori produzioni; il mondo audiovisivo è e resta globale, con paesi, regioni, stati che si contendono la posta a suon di incentivi. Persino i mega studi di Pinewood o quelli di Shepperton incassano aiuti pari al 35 per cento stanziati dal governo britannico, figuriamoci cosa accade nell’est europeo, mentre la Spagna è in corsa più che mai. L’Italia sovranista invece ha deciso di fare marcia indietro: i sostegni in forma di crediti d’imposta vanno cambiati, forse aboliti, dicono al ministero dell’Economia, pesano troppo sulle finanze statali e sono comunque figli di un’altra èra, quella del centrosinistra, di Rutelli e dell’odiato Franceschini.
Il governo ha il diritto di rivedere le sue scelte di politica industriale anche nel cinema e nella tv, soprattutto ha il dovere di non sprecare i soldi dei contribuenti. Ma un anno di tentennamenti, di confusione, di annunci contraddittori per poi partorire un provvedimento pasticciato che il Tar del Lazio ha sospeso, perché non ci vede chiaro, fino al 4 marzo quando si terrà un’udienza pubblica, ha finito per colpire duramente Cinecittà. La fuga di “Maria” è una conseguenza pesante, perché i bilanci degli studios romani si reggono su alcune, non molte, grandi produzioni internazionali. Se i big si rivolgono altrove, i piccoli sono sul piede di guerra. Prima della riforma, le produzioni potevano beneficiare di incentivi che coprivano fino al 40 per cento dei costi, un’attrattiva irresistibile per le major internazionali. L’attuale norma, invece, prevede un’immediata compensazione del 70 per cento che scende al 40 in caso sia un colosso a farne richiesta. Penalizzata, ça va sans dire, è la demonizzatissima intelligenza artificiale. Le nuove norme da un lato impongono un tetto massimo alle produzioni internazionali, quelle che producono i maggiori ricavi a suon di milioni di euro tra affitto degli studi e tutto il resto, dall’altro impongono che per accedere ai finanziamenti occorre possedere il 40 per cento di capitali privati. I produttori indipendenti calcolano che bisogna avere in tasca almeno 600 milioni di euro da anticipare per un’opera prima. Qual è la logica di questa doppia mutilazione in alto e in basso?
Secondo il governo, la legge Franceschini, che ha istituito il “Fondo Cinema e Audiovisivo”, ha mostrato vari processi patologici se non veri e propri abusi. La dotazione è passata da 400 milioni nel 2017 a 750 milioni di euro, record del 2022. Ma dei 1.354 film che hanno richiesto il “Tax Credit” ben 598 pellicole, pari al 44 per cento non sono mai state distribuite al pubblico. Il rischio di creare un sistema autoreferenziale fuori da ogni logica di mercato esiste. Le 17 associazioni che hanno lanciato il movimento “Sos cinema” (autori, registi, attori, ma soprattutto tecnici e lavoratori, dai 100 autori a Unita, da Air3 all’Apai, passando per il comitato #Siamoaititolidicoda) se la prendono con il sistema distributivo e chiedono che il governo intervenga a valle, non a monte. Tuttavia è chiaro che, con un bilancio dello stato in sofferenza, una procedura d’infrazione aperta dalla Ue per eccesso di deficit, una crescita che rischia di fermarsi, non bisogna essere Milei per intervenire. In ogni caso Giorgetti, il più allarmato dei ministri, non ha imbracciato la motosega. Nanni Moretti da Venezia aveva invitato alla protesta. Giuseppe Tornatore in una intervista alla Stampa sostiene che “è tutto fermo perché la legge del tax credit è stata rimessa in discussione dal governo, si promette una riforma che non si sa bene quanto possa correggere i difetti della vecchia legge, quindi il boom delle produzioni straniere si è di colpo azzerato e le nostre produzioni faticano a ripartire”.
Secondo alcune stime, il fatturato di Cinecittà quest’anno scenderà dai 47 milioni del 2023 a 15-16 milioni di euro. Ma anziché ammettere l’errore, il governo ricorre a una serie di alibi per gettare la colpa sulla precedente gestione, quella di Nicola Maccanico che si è dimesso nel giugno scorso. Nei suoi tre anni al timone, i ricavi sono stati superiori a 115 milioni di euro con 4,1 milioni di utili. Invece, secondo una verifica della quale il governo ha incaricato Price Waterhouse Cooper ci sarebbe un buco di 6,7 milioni di euro pari a un terzo del capitale. Come mai allora i bilanci sono stati certificati da Ernst&Young? Il mistero s’annida nella “diversa quantificazione a budget dei ricavi”. Spiegano gli esperti: la Mexico City di Guadagnino, la Milano anni Venti di Mussolini o l’antica Roma ricostruita restano come patrimonio che Cinecittà può sfruttare ancora, in quale voce del bilancio vanno calcolati, i costi, il capitale o che altro? Si racconta che Enrico Cuccia, il quale non si fidava, volesse leggere dei bilanci solo il risultato finale. In attesa che la querelle si risolva, il buco vero o presunto serve per chiedere un contributo di 35 milioni di euro al Tesoro che invece stringe la borsa. Sangiuliano ha lasciato a Giuli una brutta gatta e il tetto di Cinecittà ormai scotta (la metafora filmica questa volta ci sta).