Come un evento letterario si è trasformato in una sagra paesana. Reportage di un editore
La fiera del libro (qui si parla di quella di Roma) si presta, di per sé, a essere un evento caricaturizzato. La lettura è infatti un atto di separazione dal mondo per immergersi più profondamente in esso. Mettere in fiera questo atto di meditazione e silenzio, per sua natura aristocratico, è inevitabilmente un contrasto farsesco. Come può essere democraticizzato un atto di per sé aristocratico senza annichilirlo? Tanto più si presta a essere caricaturizzato nel nostro tempo di verticistico analfabetismo funzionale; o nella figura stessa della curatrice della fiera che ci tiene sempre a presentarsi come una intellettuale particolarmente engagée che non esita mai, neppure per un momento, né quando scrive né quando indossa, a fare di se stessa la caricatura del medesimo intellettuale. In mezzo a questo trionfo della caricatura, vi è però il fatto che editori più o meno piccoli, più o meno medi (talvolta più per stazza che per contenuti), investano denari e tempo per recarvisi quasi un’intera settimana. Il sottoscritto, che è uno di questi, deve confessare che non metterebbe piede a una fiera per nessun motivo al mondo se non perché spinto dalla volontà di allargare il proprio pubblico, far conoscere i propri libri e fare il mestiere di imprenditore (cit. SB): provare a tenere in piedi la baracca ed eventualmente guadagnare soldi. Sveliamo subito il finale, a dispetto delle dichiarazioni sui risultati sostanzialmente in linea con gli anni precedenti, quest’anno in termini di guadagni è andata male.
I numeri degli ingressi sono rimasti simili perché la fiera (che dura dal mercoledì alla domenica) è stata sostanzialmente invasa dalle scolaresche che per metà della giornata scorrazzano (come è giusto che sia, sono bambini e ragazzini che semplicemente non dovrebbero esser lì) come se fossero in una sorta di ricreazione permanente con le maestre che li chiamano e gridano e strepitano o cercano di persuadere. E i giovani virgulti della scuola italiana prendono, girano, stropicciano i libri come se fossero oggetti misteriosi, che tra l’altro conosceranno (spesso male) per il breve tempo della loro scolarizzazione per poi dimenticare (tranne in media una volta all’anno) per il resto della vita.
Chi, invece, adulto, arriva alla fiera animato dalle migliori intenzioni (conoscere realtà editoriali poco note e spendere denari in libri) si trova subito dinanzi al moloch dell’ingresso: €13. Quindi uno va in un posto di per sé povero, perché tale è il mondo dell’editoria, per acquistare un prodotto che si vende malissimo, il libro, e subito si trova a dover pagare per niente. Nel momento poi in cui si entra nella sala degli espositori, il medesimo visitatore si trova dinanzi a editori i più diversi, e questa sarebbe la ricchezza dell’evento. Tuttavia, gli editori sono disposti senza alcun criterio se non quello della prenotazione degli spazi espositivi assegnati a caso e rinnovati ogni anno in permanenza di posizione come fossero delle concessioni balneari. Neppure, che ne so, un riassegnamento casuale ogni cinque anni. Un posto occupato è tale in permanenza. E così il povero visitatore trova accanto a libri dotti venditori di cartoleria che incidentalmente stampano anche opuscoli fantasy, distributori di tazze con l’effigie di Fantozzi accanto agli editori universitari, stampatori di calendari più o meno devoti poco distanti da una casa editrice anarco-insurrezionalista. Ah, la ricchezza della diversity!
Questo terrificante democraticismo planimetrico genera una sorta di frullatore in cui titoli, autori, copertine, parole, concetti si confondono totalmente generando nel lettore quel senso di uguaglianza assoluta tra parole e cose diverse che è il sogno ultimo dei democratici spinti e degli intellettuali engagé di cui sopra.
Se poi, per un attimo, il visitatore vuole prendere una pausa da questo turboculturame per mangiare qualcosa (dannazione, siamo pur sempre a una fiera!) e si avvicina a uno dei bar che, bisogna dire, sono disposti quasi a ogni angolo della fiera, si trova ad azzannare panini immangiabili e overpriced che restano gelidi al loro interno (sempre simili indipendentemente dal fatto che si tratti di prosciutto o di salmone) a dispetto del pane carbonizzato dalla piastra.
Al povero visitatore, a questo punto, ormai tramortito dall’esperienza, non resta altro da fare, tornando verso casa, che augurarsi di andare ad allungare la fila degli analfabeti funzionali e di vedere sbucare all’orizzonte i pompieri di “Fahrenheit 451”.