Storia “anticostituzionale” di un “caregiver familiare” e di altri 8 milioni come lui. Soli

Miki e gli altri. Indagine su una figura essenziale per la nostra società ma che esiste solo sulla carta. La legge che non arriva. Una vita “incostituzionale”

Lo chiameremo Miki. Un po’ perché, semplicemente, è il suo vero nome. Michele. Un po’ perché nella sua vita non c’è spazio per fantasie e per nomi di fantasia. E’ un caregiver familiare, Miki. E nella sua vita di uomo adulto che si prende volontariamente cura, ogni giorno e a ogni ora del giorno, di una mamma invalida e di un fratello maggiore disabile, lo spazio per le finzioni non esiste. E infine perché, soprattutto, la vita e la condizione che Michele affronta ogni giorno non è una stranezza, un caso del destino, ma è la condizione drammatica che moltissime altre persone come lui, “caregiver familiari” li chiama la legge, affrontano. Di solito da sole. Sono oltre 8 milioni in Italia le persone che si prendono cura di familiari non autosufficienti, più di un terzo di loro senza alcun supporto esterno; un esercito silenzioso di dedizione e fatica. Non riconosciuto, non supportato. Colpisce anche scoprire che almeno 500 mila di loro sono giovani tra i 15 e 28 anni, altro che ragazzi senza impegno e ideali. Un popolo cui si aggiunge oltre un milione di caregiver professionali, insufficienti anche loro: perché nel nostro paese le persone che hanno bisogno di assistenza domiciliare continua sono e in costante crescita.

Miki ha gli occhi azzurri, fa il professore di matematica. Se avesse un’altra vita saprebbe come riempirla di passioni. Ma da quando è morto papà la sua vita è questa, e meno male che c’è l’Inter a riempirla di passione. Una madre ora invalida al 75 per cento, un fratello disabile al 100 per cento, maggiore d’età. Che ora frequenta un centro del Comune, lo vengono a prendere col pulmino e lo riportano, “prima ci andava da solo, a piedi; ma in un quartiere come il nostro rischi sempre di fare un brutto incontro, una presa in giro o anche peggio”. Al centro sta dalle 8 e 30 alle 16, “ma tutto il resto poi è mio, lo faccio io. Da mangiare, lavarsi, le medicine”.

E quando per l’età non potrà più frequentare quel luogo specializzato? “Ci sono solo i centri per anziani, inadatti alla situazione di queste persone”. E’ sconsolato Miki: “Io sono solo, e se guardo in avanti non vedo nessuna prospettiva, nessun aiuto, nessuna soluzione. Ora parlo con te: perché voglio far conoscere la mia situazione e quella di tanti altri. E quello che vorrei gridare è questo: qualcuno si decide a prendersi carico di questa necessità? Perché la mia condizione di vita è, semplicemente, anticostituzionale”. In che senso è anticostituzionale? “Sotto l’aspetto dell’articolo 3, ad esempio: perché io non ho libertà di lavoro. Anzi faccio un lavoro, oltre al mio, che non è riconosciuto. E poi sotto il profilo della libertà personale, di movimento. Questi che sono i diritti di ciascuno, a me sono negati”. Non è una forzatura polemica, il racconto di Miki corrisponde a migliaia di altre vite che gridano lo stesso elenco di diritti impossibili, di aiuti che non ci sono se non in piccolissima parte, di domande che solo in apparenza appaiono paradossali. Ma non lo sono. Il tema del lavoro, ad esempio: “Un caregiver professionale riceve uno stipendio, ha diritti di welfare, accantona i suoi anni pensionistici. Io no, devo fare un altro lavoro per vivere, questo non mi è riconosciuto. Non dico con una forma di retribuzione (che pure secondo alcuni esperti dovrebbe e potrebbe essere introdotta, ndr) ma nemmeno nella forma di contribuzione figurativa per la pensione. Io ho davanti quasi vent’anni di lavoro, ammesso di farcela, ma mi verrà riconosciuta qualche mensilità di anticipo. E’ assurdo. Perché, al di là del logoramento personale, il lavoro del caregiver ha una funzione sociale e, banalmente, fa anche risparmiare molto la sanità pubblica”. Il tema della possibilità, almeno, di andare in pensione qualche anno prima mettendo in carico all’Inps, allo stato, la contribuzione di chi svolge un lavoro che è anche di natura sociosanitaria è tra i più sentiti. Ma non è l’unico. C’è il tema economico, ovviamente: la spesa per sostenere un familiare è stimata tra i 6-700 euro mensili e i mille, ma i bilanci delle Regioni e dei welfare comunali sono stretti e in più variano a seconda delle condizioni – “per esempio: mio fratello non è allettato, può uscire, dunque ha diritto a un sostegno economico minino, anche se invece le spese vere le puoi immaginare” – e spesso non raggiungono la metà dei costi reali sostenuti.

Ma c’è anche il tema definito del sollievo: “I caregiver professionisti vanno in ferie, noi no. E non tutti hanno parenti con cui darsi il cambio”. Non si parla, o molto poco, di questo mondo che confina e sconfina con quello dell’assistenza sanitaria. Si parla della crisi di ospedali, medici e infermieri, ma i caregiver sembrano invisibili. Eppure in una società che invecchia, spesso in condizioni di solitudine personale, con i tagli all’assistenza pubblica e la scarsità di personale è invece sempre più cruciale capire questo lato nascosto della cura. Il primo Rapporto Cergas della Bocconi (2023) sulle prospettive per il settore sociosanitario e l’evoluzione della cura agli anziani (“long term care”) racconta che sono sempre di più gli over 65 non autosufficienti, si stimano circa tre milioni solo in questo ambito, ma le risorse investite rimangono costanti. Gli otto milioni di caregiver familiari si auto organizzano. Qualche tempo fa un’inchiesta del Corriere Salute ha dato loro un po’ di fiato, al di fuori dell’informazione specializzata, anche grazie a un questionario tra i lettori cui hanno risposto 2.116 caregiver: un frammento statistico significativo. In prevalenza donne tra i 45 ai 75 anni, in prevalenza alle prese con la vecchiaia e le sue cronicità, Alzheimer e Parkinson. Ma chi assiste figli o fratelli con disabilità dalla nascita sa che l’invecchiamento è un problema innanzitutto per sé stessi (esiste dal 2016 la legge “Dopo di noi”, dotazione 2024 di 76 milioni, ma non risolve se non in piccola parte il problema dell’affidamento di persone che rimarranno sole). Qualche settimana fa Netflix ha messo in streaming una serie polacca, “Le mamme dei pinguini”, che racconta la vita di una madre con la vita di una madre con un figlio affetto autistico. Bene, ma non basta a svegliare l’attenzione. Pesa l’impatto sulla propria qualità di vita: solo il 20-30 per cento riesce a usufruire di qualche giorno di vacanza, di tempo libero.

La realtà osservata dal punto di vista di un caregiver è molto più sfaccettata di quanto sembri. Il contraccolpo che ne ha Michele è anche quello di una grande solitudine fisica e sociale: “Ognuno cerca di risolvere il proprio problema, ambiti di condivisione e aiuto non ci sono”. In verità le associazioni di caregiver esistono, anche se spesso circoscritte per ambiti di patologie, e a livello di assistenza pubblica – le Regioni, i Comuni, gli sportelli che accolgono o reindirizzano le richieste – si tratta soprattutto di supporto legale, burocratico. Non è mondo su cui la politica e il welfare abbiano mai puntato: gli invisibili non hanno voce. Anche perché la questione è davvero complessa. 
Una legislazione embrionale infatti esiste, seppure da pochi anni. La figura del “caregiver familiare” è stata introdotta dalla legge 205 del 2017, che in realtà è una legge di Bilancio. In cui per la prima volta si parla delle persone che assistono e si prendono cura del coniuge, del partner di un’unione civile o del convivente di fatto, di un familiare o “un affine” entro il secondo grado di parentela o anche il terzo, nel caso di malattia o disabilità gravi. Così nel 2018 è stato per la prima volta finanziato un Fondo unico per l’inclusione delle persone con disabilità del valore di 25 milioni circa. Ripartito tra le Regioni, che sono responsabili del servizio. La cifra non è molto cospicua, anche perché rimasta invariata, ma come spiega al Foglio Loredana Ligabue, che dirige l’associazione dei caregiver familiari “Carer”, emiliana di Carpi e già dirigente per il welfare della Regione, “quella svolta ha rappresentato in ogni caso un passo importante: si è per la prima volta scritto in una legge che la figura del caregiver familiare esiste, che ha determinate caratteristiche e necessità. Si è fatto un primo recinto per circoscrivere e rendere giuridicamente visibile questo mondo”. Loredana Ligabue è stata tra le protagoniste di una recente audizione dei caregiver presso la XII commissione Affari sociali della Camera, il 31 luglio scorso, ed è stata promotrice, in ottobre, di un manifesto-appello per una “legge inclusiva e di equità sociale”. E adesso? Le chiediamo: com’è possibile che milioni di persone come Michele si sentano ugualmente abbandonate, senza prospettiva? Nel gennaio scorso da governo e Parlamento erano giunti segnali “risolutivi” e ottimistici. Si era infatti insediato un “Tavolo tecnico per l’analisi e la definizione di elementi utili per una legge statale sui caregiver familiari” istituito dal ministro per le Disabilità, Alessandra Locatelli, e dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone. Interviste ottimiste, tempi brevi. La legge è ancora bloccata. Ma non se ne può dare la colpa solo all’attuale maggioranza: i progetti di legge in materia sono rimasti bloccati anche nelle precedenti legislature. Un caos. Oggi, ci spiega Ligabue, sono depositati alla commissione alla Camera ben 6 disegni di legge (e altrettanti erano stati presentati in passato), spesso contraddittori su punti essenziali. Alcune proposte prevedono deleghe al governo, procedure più veloci. La necessità di un “tavolo” per raggiungere una proposta condivisa è evidente, ma non è semplice arrivarci. E’ un cammino difficile, spiega Ligabue. Che è iniziato dalle Regioni più lungimiranti, come l’Emilia-Romagna, che nel 2014 ha varato la prima legge regionale sui caregiver familiari riconosciuti “in quanto componenti informali della rete di assistenza alla persona e risorsa del sistema integrato dei servizi sociali”, seguita poi con esiti più o meno compiuti dalle altre, Lombardia tra le prime. Poi è venuta la legge con il fondo del 2017, ma poiché ogni Regione ha sue leggi e regolamenti ognuno ha dovuto presentare un piano che fosse compatibile con il proprio, il che spiega anche la diversa efficacia di ogni sistema. Ora quel fondo è confluito nel Fondo unico della “Legge delega non autosufficienza” (legge 33 del 2023), mentre le nuove linee del governo prevedono un diverso utilizzo dei fondi – in molti casi le risorse non sono più dirette per gli utenti, ma erogate attraverso i servizi forniti. E questo, spiega Ligabue, è anche un bene laddove costringe le Regioni a fornire servizi che soprattutto al Sud non ci sono. Ma è stato sentito come un puro “taglio” in altre situazioni: la Lombardia ad esempio, dopo le critiche dell’opposizione, ha rifinanziato una parte dei contributi diretti. Ma la situazione resta incerta e magmatica in attesa di una legge per tutto il settore. Intanto la sofferenza resta, i contributi economici “di sollievo”, gli “assegni di cura” e i bonus sociosanitari non risolvono tutto. In uno studio parlamentare dello scorso aprile si segnala ad esempio che nel 2022 “il Comitato Onu sui Diritti delle persone con disabilità ha accolto il ricorso di una caregiver familiare italiana avendo ‘riscontrato che l’incapacità dell’Italia di fornire servizi di sostegno individualizzati a una famiglia di persone con disabilità è discriminatoria e viola i loro diritti alla vita familiare, a vivere in modo indipendente e ad avere un tenore di vita adeguato”. Siamo dalle parti della “provocazione” di Michele sulla incostituzionalità della sua condizione.

Ma come risolvere? E perché ci sono tanti progetti diversi? Spiega Ligabue che anche nella scorsa legislatura ci si è fermati, “ci sono oggettive differenze”. Il primo punto decisivo, sembra paradossale, è proprio la definizione di caregiver familiare. “C’è una scuola di pensiero, anche di utenti, che rispetto alla definizione vaga attuale vuole restringere il recinto di chi ha ‘responsabilità di cura’ ai soli conviventi. E c’è un’altra posizione, quella della mia associazione e di altre, che invece vuole allargare la platea: perché c’è chi si occupa dei genitori anche vivendo in una diversa casa, chi si occupa di fratelli, e c’è anche poi una gradazione: il parente in un’altra città, ma che una responsabilità pure ce l’ha”. Scendendo alla pratica, il problema è concreto: se si allarga la platea si divide la torta dei contributi. “Che però può essere graduata in un’ottica di tutele crescenti”, e questa potrebbe essere la via da seguire. Ma i caregiver soffrono anche per le condizioni, non solo per i soldi. C’è il tema dei contributi figurativi, che al momento sono previsti solo con l’Ape sociale, ma sono minimi. La richiesta di retroattività (“la mia condizione è così da tot anni”), ma è tecnicamente impossibile. “Il punto è che noi abbiamo iniziato solo ora a ragionare di queste cose. In Francia la deducibilità fiscale per le famiglie che usano badanti è di 20 mila euro, in Italia solo 2.000”. Poi c’è la questione del “sollievo”, che è anche quella di una solitudine sociale e personale. “In Germania esistono assicurazioni sulla non autosufficienza, da noi noi”. Il sollievo in Italia oggi è a carico delle Regioni, se c’è: il trasferimento temporaneo in strutture residenziali. Ma non si pensa che questo è invece il primo vero dramma del caregiver, “dove li portano, chi li accudisce?”, e del malato che vive la “vacanza” con un abbandono. In Francia si è iniziato dal 2020 a fare “sollievo domiciliare”, una persona che va in casa mezza giornata alla settimana, ovviamente con gradualità e difficoltà. Da noi non si è ancora cominciato. La prima legge sui caregiver familiari fu fatta in Gran Bretagna nel 2004. Finalmente in Italia si parla di trasformare rapporti di lavoro a tempo pieno in tempi parziali, e lo smart working può molto aiutare, o di diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio. Nel 2024 ha debuttato il “bonus caregiver”, che può arrivare a 500 euro ma varia a seconda della Regione o del Comune e dei requisiti di accesso. E c’è un problema di valorizzare l’esperienza maturata in qualità di caregiver familiare ai fini di possibili attività professionali come quella di operatore sociosanitario. C’è molto da fare, per far uscire questo esercito volontario della cura familiare da una invisibilità che, come dice Miki, è incostituzionale.


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  • Maurizio Crippa
  • “Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini”

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