Pubertà bloccata. Transizioni di genere facili sì, il problema è poi tornare indietro. Storie americane

Dai disturbi psicotici alla probabile infertilità, passando per ansia, depressione, attacchi di panico. Il rischio di dover risarcire pazienti danneggiati resta il più potente disincentivo per le cliniche di genere. La denuncia di una ventenne detransitioner

Si era già parlato della dottoressa Johanna Olson-Kennedy. Tra i più noti esperti americani di medicina di genere per minori, è diventata ancora più famosa da quando il Congresso ha aperto un’inchiesta su un suo studio, finanziato con dieci milioni di dollari e le cui conclusioni non sono state mai pubblicate perché dimostrerebbero che bloccare la pubertà a bambine e bambini gender non conforming non li fa affatto stare meglio.

“Non voglio che il nostro lavoro venga trasformato in un’arma contro le terapie affermative”, si era clamorosamente giustificata in un’intervista al New York Times. Ora Olson-Kennedy e il suo staff devono vedersela con la denuncia di una ragazza di 20 anni, Kaya Clementine Breen, che li accusa di negligenza medica per averle bloccato la pubertà quando aveva 12 anni, imbottita di testosterone a partire dai 13, mastectomizzata a 14. Il rischio di dover risarcire pazienti danneggiati resta il più potente disincentivo per le cliniche di genere: varie agenzie assicurative di difesa medica, come l’australiana Mda, hanno cominciato a mollare il settore visto “l’alto rischio di sinistri derivanti da trattamenti irreversibili su coloro che effettuano la transizione medica e chirurgica da bambini e adolescenti”.



Clementine oggi è una detransitioner. Ha smesso di prendere il testosterone a 17 anni perché le procurava disturbi psicotici, il suo torace è piatto come una tavola, la “terapia” le ha lasciato un vistoso pomo d’Adamo, una voce dal timbro maschile e un sacco di altri problemi tra cui una probabile infertilità: questo la fa soffrire molto, dice che è vera misoginia.



Era stata la consulente scolastica a indirizzarla alla clinica di Olson-Kennedy: stava male, non sapeva più chi era. Olson-Kennedy l’avrebbe avviata alla transizione fin dalla prima visita senza valutare i suoi problemi mentali: la ragazza “ha sofferto di una serie complessa e multiforme di sintomi psichiatrici fin da bambina e da adolescente”, è scritto nella denuncia. “Ansia, depressione, autismo, disturbo post traumatico da stress (Ptsd) non diagnosticato, possibile bipolarismo, confusione riguardo al genere, psicosi (incluse allucinazioni uditive e visive), attacchi di panico e paranoia. Anche la sua famiglia ha una lunga storia di problemi di salute mentale”. Clementine è anche “una sopravvissuta a molteplici episodi di abuso sessuale subiti da bambina e da adolescente, fatto che non è mai stato esplorato”. Tre mesi dopo il primo incontro con Olson-Kennedy la transizione era già avviata. Quanto alla top surgery (doppia mastectomia), Olson-Kennedy ha sempre minimizzato: “Non è necessaria un’età minima” aveva detto in una conferenza. “Se a un certo punto della vita vuoi riavere il seno puoi sempre andare a procurartelo”.



Negli Stati Uniti gli ospedali pediatrici eseguono mastectomie anche a 13 anni. Secondo uno studio pubblicato dal Journal of the American Medical Association sono top surgery il 60 per cento dei circa 50 mila interventi di “affermazione del genere” eseguiti tra il 2016 e il 2019 (poi le cose sono andate sempre peggio). Olson-Kennedy e il suo staff avevano convinto la famiglia con il solito orribile argomento “preferite un figlio vivo o una figlia morta?”, anche se Clementine non aveva mai manifestato impulsi suicidi. E ormai sono molti gli studi, a cominciare dal Cass Review, che smentiscono il mito del maggior rischio suicidio nei minori trans, ma le cliniche di genere non sembrano intenzionate a mollare la tattica del terrore. Se ne è parlato proprio qualche giorno fa davanti alla Corte suprema.

L’Amministrazione Biden ha infatti presentato ricorso contro lo stato del Tennessee che vieta da tempo le terapie ormonali sui minori: transattivista in entrata – il primissimo atto da presidente, nemmeno 24 ore dopo la sua elezione, fu un ordine esecutivo che riammetteva i transgender negli sport scolastici femminili – Biden ha deciso di esserlo anche in uscita, solerzia che meriterebbe qualche attenzione.



La Corte suprema ha ascoltato tra gli altri Chase Strangio, transgender e avvocato dell’Aclu (American civil liberties union), promotore del ricorso insieme all’Amministrazione Biden. Pur insistendo sul fatto che le terapie farmacologiche di affermazione del genere “riducono le tendenze suicide” – benché nessuno studio solido dimostri una diminuzione della cosiddetta “suicidalità”, cosa peraltro ben diversa dal tasso di suicidi –, Strangio ha ammesso di fronte ai giudici che “il suicidio completato, fortunatamente e lo ammetto, è raro”. Ma ai genitori di bambine/i nei guai si continua a raccontare un’altra storia.


Intanto nel Regno Unito il femminismo gender critical passa alla linea dura in difesa delle donne e dei bambini. In una lettera al primo ministro Starmer la rete Wdi (Women’s declaration international) si oppone alla costante “falsificazione del sesso”, spingendosi a chiedere l’abrogazione del Gra (Gender Recognition Act), legge che dal 2004 consente il cambio sui documenti.

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