Oltre due aziende italiane su tre non trovano le figure professionali richieste e l’industria soffre più dei servizi. Per il centro studi di Confindustria serve immigrazione qualificata per sostenere la crescita
“Le imprese italiane faticano a trovare profili adeguati in molti settori strategici, segno di un forte disallineamento tra competenze richieste e offerte. A peggiorare il quadro, contribuiscono il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione, che amplificano la carenza di lavoratori, rendendo necessario aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e attrarre immigrati qualificati”. Lo ha detto Lucia Aleotti, vice presidente di Confindustria (con delega al centro studi) nel presentare i dati sul disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, fenomeno che “non riguarda solo le imprese ma l’intero paese”. Oltre due aziende su tre non trovano le figure professionali richieste e l’incidenza di questo disallineamento varia a seconda del settore e delle dimensioni. Nel comparto industriale, il 73,5 per cento delle aziende incontra difficoltà nel reperire competenze, contro il 65 per cento nei servizi. E si parte da un minimo del 64,8 per cento nelle piccole realtà al 72,8 per cento nelle medie fino al 77,6 per cento nelle grandi aziende.
“Serve un approccio sistemico – dice Aleotti – che coinvolga istituzioni, aziende e sistema educativo in uno sforzo comune e coordinato per rispondere a questa sfida”. Non è la prima volta che Confindustria denuncia il fenomeno ma questa volta lo fa in modo più deciso spiegando che lo sforzo che le imprese pure stanno facendo di investire in formazione può risolvere solo parte del problema. Attrarre immigrazione qualificata, come chiede l’associazione guidata da Emanuele Orsini dovrebbe, infatti, essere compito del governo. Esiste, ormai, evidenza scientifica del contributo che la forza lavoro straniera offre alla crescita dell’occupazione e dell’economia in generale soprattutto nei paesi più colpiti dalla crisi demografica.
Secondo la Banca d’Italia, nel periodo che va dal 2007 al 2023 la crescita della popolazione straniera ha sostenuto l’occupazione in Italia in tutte le macroaree, a fronte di un calo del contributo dei “nativi”. Il confronto con gli altri paesi europei conferma questa tendenza: nella media Ue, dove si mantiene positivo anche il contributo dei nativi, l’occupazione è, infatti, cresciuta più che in Italia. Vuol dire che quando esponenti di Palazzo Chigi vantano il buon andamento del mercato del lavoro dicono la verità ma omettono due cose: la prima è che il trend positivo è dovuto soprattutto agli immigrati e il secondo è che nel confronto europeo l’Italia è perdente a causa della denatalità di cui non si riesce a invertire la tendenza. Un esempio lampante è il Mezzogiorno, come spiega sempre la Banca d’Italia nel suo ultimo rapporto sull’economia delle regioni: qui l’occupazione fa più fatica ad aumentare, nonostante la ritrovata dinamicità dell’economia proprio perché attrae poca immigrazione (qualificata). In base, inoltre, agli ultimi dati sulle medie imprese del Sud, presentato ieri dall’Area Studi di Mediobanca con Unioncamere e l’istituto Tagliacarne, un terzo di queste realtà è pronta a inserire lavoratori stranieri per sostenere una crescita che sta conoscendo ritmi mai visti finora. Il rapporto tra immigrazione e crescita economica è destinato a diventare un tema caldo dei prossimi anni per i anche per le sue implicazioni politiche.
Una ricerca della banca d’affari americana Goldman Sachs, fa notare, per esempio, che nonostante il forte aumento dell’immigrazione registrato tra il 2023 e il 2024 abbia contribuito a riequilibrare il mercato del lavoro negli Stati Uniti e rappresentato il motore della crescita in paesi come Germania, Norvegia, Svezia, Regno Unito, Canada e Nuova Zelanda, le cose sono destinate a cambiare perché le politiche d’immigrazione diventeranno sempre più restrittive a partire dal 2025. Goldman ricorda che molti governi intendono modificare questa rotta e hanno già annunciato maggiori limiti agli ingressi, controlli più severi e maggiori requisiti di esperienza lavorativa. Quale sarà l’impatto di queste restrizioni? Secondo la banca d’affari americana, si ridurrà il contributo dell’immigrazione alla crescita della popolazione nei paesi sviluppati dall’1 per cento di oggi a circa lo 0,4 per cento nel 2025 (in Canada dal 3 per cento all’1,3 per cento). Quello che succederà, insomma, è che venendo a mancare un fattore di recupero demografico soprattutto nei paesi più afflitti dalla denatalità come l’Italia, ci sarà una discesa del pil difficile da spiegare per il governo, se nel frattempo ha magari posto limiti all’immigrazione, senza cadere in una macroscopica contraddizione.