Il collasso dei piani iraniani

L’Asse della resistenza ormai “è storia”. Prima Nasrallah, poi Haniyeh e ora Assad in fuga. Considerano il martirio “dolce come lo sciroppo” ma questa sequenza di eventi è la peggiore sconfitta per la Repubblica islamica da quando esiste

“La spina dorsale dell’Asse della resistenza è la sua autostrada siriana” che, procedendo da est verso ovest, collega la testa – Teheran – al braccio meglio organizzato per colpire Israele, Hezbollah in Libano. “La Siria è l’anello d’oro”, proseguiva Ali Akbar Velayati, consigliere fidato della Guida suprema Ali Khamenei. “Non siamo come gli americani. Non abbandoniamo gli amici”, diceva il generale iraniano più famoso, Qassem Suleimani, parlando di Bashar el Assad. “Se perdiamo Damasco non saremo in grado di tenere Teheran”, era la sentenza che adesso suona apocalittica di Mehdi Taeb, il capo dell’intelligence dei pasdaran.

Ali Khamenei è un leader avverso al rischio. Nel 2012 doveva decidere se intervenire per salvare il regime di Assad dai siriani oppure lasciar perdere ed era propenso per la seconda ipotesi. Lo convinsero a impegnarsi nella guerra Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, e il generale Suleimani, l’architetto dell’Asse della resistenza, l’allenatore e il finanziatore di tutte le milizie amiche di Teheran sparse per il medio oriente ucciso da un drone americano per ordine di Donald Trump nel 2020. Khamenei sapeva che per salvare Assad avrebbe dovuto spendere molti miliardi di dollari da sottrarre agli iraniani, a un’economia nazionale già sanzionata e debole. “Lasciate stare la Siria, pensate a noi!”, “lasciate stare il Libano, pensate a noi!”, “lasciate stare Gerusalemme, pensate a noi!”, cominceranno a gridare nelle piazze i contadini e gli operai iraniani di lì a poco, durante le ondate di protesta che si sono susseguite negli anni.

Alla fine l’intervento in Siria è costato all’Iran almeno trenta miliardi di dollari che sono poi andati bruciati in una decina di giorni: tra il 27 novembre, quando è cominciata la marcia da Idlib verso Aleppo, e la caduta di Damasco nelle mani dei ribelli il 7 dicembre. Due mesi prima anche l’investimento più importante mai fatto da Teheran all’estero – la costruzione di Hezbollah e del suo arsenale portata avanti meticolosamente per quarant’anni – era evaporato in dieci giorni: tra il 17 settembre in cui quattromila cercapersone sono esplosi nelle mani di altrettanti miliziani libanesi e il 27 settembre in cui l’aviazione israeliana guidata dall’intelligence militare ha finito di decapitare la leadership del gruppo uccidendo il suo capo, Nasrallah, con due bombe da mille chili ciascuna.

Suleimani non era un ammiratore di Assad, nel 2013 diceva che “il suo esercito è completamente inutile!”, poco fedele e molto corrotto. Secondo alcune fonti di solito bene informate, nonostante il generale iraniano non abbia mai avuto remore a usare tecniche brutali, ha avuto un sussulto quando il dittatore siriano ha deciso di usare le armi chimiche – il gas sarin – a Ghouta, contro i civili e contro il suo popolo arrabbiato e indomito pur di stroncarlo. Come tanti maschi iraniani della sua generazione Suleimani aveva visto gli effetti delle armi chimiche di Saddam Hussein sui corpi dei suoi commilitoni quando era in trincea a difendere la neonata Repubblica islamica dall’invasione irachena. Le armi chimiche in Iran sono impronunciabili perché sono una ferita collettiva – tutti ne conoscono gli effetti e conoscono almeno una vittima. Ma per Suleimani la Siria era un mattone irrinunciabile dell’Asse, il sarin valeva l’autostrada nel deserto su cui passavano i missili per gli alleati più stimati e più preziosi: gli uomini di Hezbollah che – fino all’ultima guerra con Israele – non avevano mai subìto una sconfitta militare, non avevano mai deluso o disobbedito, che erano dei veri fratelli, dei veri sciiti, che riconoscevano l’ayatollah a capo dell’Iran come autorità suprema. E che, soprattutto, dovevano funzionare come un’assicurazione sulla vita contro il nemico esistenziale: Israele. Una sorta di patto di mutua distruzione sul modello di quello della Guerra fredda ma su scala minore, in salsa mediorientale e senza plutonio, che le autorità di Teheran intendevano più o meno così: lo stato ebraico non oserà attaccare il territorio della Repubblica islamica con i suoi aerei da guerra perché altrimenti noi scateneremmo tutta la potenza di fuoco di Hezbollah contro “l’entità sionista”, e gli israeliani sanno che i razzi di Hamas non sono nulla rispetto alle decine di migliaia di missili potenti che partirebbero in massa dal Libano diretti verso Tel Aviv. Questa assicurazione poteva valere finché Hezbollah non si è accartocciato in dieci giorni come nessuno – tranne forse il Mossad – aveva previsto che potesse accadere. Dopo aver messo in ginocchio il Partito di Dio, Israele ha colpito con i jet la capitale Teheran (le sue difese aeree di fabbricazione russa) il 26 ottobre. Non lo aveva mai fatto in quarant’anni.

L’alleato più affine, che Khamenei considerava un amico, Nasrallah, è morto. L’unico alleato che fosse anche il presidente di un paese, Assad, è fuggito. Il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, il socio palestinese che con la sua presenza nell’Asse ne giustificava la causa – “riconquistare Gerusalemme” – è saltato in aria a Teheran poche ore dopo essere uscito dall’ufficio della Guida suprema. E anche se dentro l’Asse considerano il martirio “dolce come lo sciroppo”, questa sequenza di eventi è la peggiore sconfitta per la Repubblica islamica da quando esiste.

Hamas a Gaza ha perso la testa, Yahya Sinwar, e il capo militare, Mohammed Deif, e le sue truppe sono state decimate. Ma il sacrificio di Hamas, una delle due milizie meno importanti dell’Asse e l’unica sunnita dentro un’alleanza sciita, era messo nel conto ed era tollerabile per l’Iran. L’ironia della storia ha voluto che il capo di un gruppo relativamente piccolo, considerato strategico a fini di propaganda più che per le sue capacità militari, con un’operazione-massacro a sorpresa di cui né l’intelligence israeliana né i pasdaran iraniani lo pensavano capace, ha sconvolto non soltanto un nemico più forte, Israele, ma anche tutti i progetti dell’alleato più potente, l’Iran, fino a portare l’Asse della resistenza al punto di collasso. Una delle croniste politiche più famose di Teheran e una giornalista vicina al regime ma schietta, Fereshteh Sadeghi, il 7 dicembre ha ammesso che “l’Asse della resistenza ormai appartiene alla storia”, per poi aggiungere che però “ogni tanto la storia si ripete”. In un altro post pubblico, Sadeghi racconta quale libro ha scelto di leggere la sera in cui i ribelli sono arrivati a Damasco spezzando fisicamente l’Asse: un saggio sull’implosione dell’Unione sovietica. Un comandante dei pasdaran iraniani ha detto che la caduta della Siria è, per Teheran, quello che la caduta del Muro di Berlino fu per Mosca.

Forse oggi per la Repubblica islamica aver perso l’autostrada nel deserto che la collegava al Libano per armare Hezbollah non è neppure più importante come lo sarebbe stato un tempo. Perché il progetto intero non sta più in piedi. Lo scudo libanese non ha funzionato nel momento del bisogno. L’Asse non era soltanto la strategia di attacco della Repubblica islamica ma anche quella di difesa, a differenza della Russia nel 1991 Teheran non ha le armi nucleari, così oggi le autorità iraniane parlano molto di due opzioni: sbrigarsi a ottenere una bomba atomica oppure minacciare di farlo e sperare così di arrivare a un patto con l’arcinemico Trump. Seppellendo per la seconda volta Qassem Suleimani.

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