L’associazione si propone di contrastare i pregiudizi nei confronti di Israele. E vuole dare voce a chi non la pensa come i collettivi dell’Intifada: “Ogni silenzio è una forma di complicità”
Interrompere la narrazione pro Pal a senso unico negli atenei, per far vedere come la maggioranza degli studenti la pensi in modo diverso. Ma sopratutto contrastare le derive d’odio antisemita che si vedono nelle università italiane. Sono queste le ragioni che hanno spinto un gruppo di studenti universitari italiani a dar vita all’iniziativa “Studenti per Israele”, che ha anche dei canali social su cui confluisce quest’attività di divulgazione. “Una volta andando al campus a Novoli, qui a Firenze, ho visto appesi ai muri dell’ateneo tutta una serie di manifesti con i mitra, i kalashnikof e le bandiere palestinesi. E’ stata l’immagine che mi ha spinto a prendere questa decisione. Ho pensato che qualunque tipo di silenzio fosse una forma di complicità”, racconta al Foglio Fausto Recupero, studente di Economia nell’ateneo fiorentino, uno dei coordinatori di “Studenti per Israele”.
Su questo giornale l’abbiamo ribadito in più occasioni: al cospetto di una capacità di monopolizzare l’attenzione mediatica, facendo passare gli studenti come tutti vicini alla causa palestinese, i vari gruppi che hanno animato le Intifade nelle università difficilmente si sono dimostrati rappresentativi del corpo studentesco. “Parlando con i colleghi, anche se spesso è grande il disinteresse per i fatti d’attualità, a un certo punto si arriva a parlare della questione israelo-palestinese. E quello di cui ci si rende conto è che la stragrande maggioranza degli universitari non la pensa come alcuni collettivi vorrebbero far credere”, dice ancora Recupero. Secondo cui “l’odio anti-israeliano è qualcosa che non accomuna gli studenti in generale, anzi”. Per questo fa ancora più strano quanto quest’odio, invece, riesca a farsi strada sulle gambe di pochi. “Già da poco dopo il 7 ottobre, cioè ancor prima della durissima risposta del governo israeliano, nella mia università si iniziarono a vedere le stelle di David con accanto le svastiche. Manifestazioni di odio ci sono state nell’immediato e sono proseguite fino a oggi. E’ anche per porre fine a questo clima pericoloso che abbiamo deciso di impegnarci in prima persona”.
Uno dei temi che anche all’interno della comunità studentesca fiorentina ha occupato un suo rilievo sono le continue richieste di boicottaggio nei confronti delle università israeliane, in linea con quanto è successo in tutto il paese. “Qui da noi queste richieste sono state portate avanti dai Giovani palestinesi che nel frattempo stanno portando avanti una loro battaglia diciamo così di colore: non chiamano più le piazze di Firenze con il loro nome. Per esempio, Piazza San Marco l’hanno rinominata con il nome di un giornalista palestinese”, racconta lo studente fiorentino animatore dell’iniziativa “Studenti per Israele”. “Per fortuna nella maggior parte dei casi sono tutte richieste che non sono state accolte. Ma questo non ha scoraggiato certi gruppi, come per l’appunto i Giovani palestinesi, a rivendicare dei boicottaggi che non lo erano. Come quanto successo alla Statale di Milano: per alcune ore sul sito dell’università erano scomparsi con gli accordi con gli atenei israeliani. Ma era solo un problema tecnico che è stato risolto abbastanza in fretta. Eppure l’hanno celebrato come il successo della loro campagna per il boicottaggio”.
Sulle pagine social di “Studenti per Israele” ci sono tutta una serie di post per contrastare la narrazione di “Israele sporco, brutto e cattivo”. Ad esempio sulle tematiche queer, dove si ricorda come Israele sia l’unico paese del medio oriente dove esiste il diritto all’aborto, l’uguaglianza di genere e la parità di salario per legge, dove una donna (Golda Meir) è stata capa del governo già nel 1969. Ma anche sulle accuse di genocidio e di cosiddetta apartheid, in contraddizione col fatto che in Israele vivono oltre due milioni di arabi. “Il nostro obiettivo è far sì che nelle università non si assista più a messaggi di antisionismo che spesso sfociano nell’antisemitismo”, conclude Recupero. “Abbiamo scelto di parlare perché qualsiasi silenzio sarebbe stata una forma di complicità”.