La posizione italiana, scettica su un accordo col Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, è paradossale: nel 2023 abbiamo esportato nei quattro mercati sudamericani 7 miliardi di euro. L’accordo abbatterebbe i dazi del 90 per cento. Non è un caso che tra gli industriali il consenso sia forte
Francia, Polonia e Italia sono tra i paesi europei che si oppongono – con intensità e posizioni differenti – alla firma dell’accordo commerciale tra Unione europea e Mercosur, vale a dire l’area che comprende Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. A differenza della Germania, che invece sostiene la firma e la ratifica del trattato per ridare fiato alla sua manifattura in crisi.
La posizione italiana è paradossale. Il nostro paese ha esportato nel 2023 oltre 7 miliardi di euro nei quattro mercati sudamericani: in rapporto al pil, è una quota molto simile a quanto venduto dai tedeschi, mentre per francesi e polacchi l’area sudamericana è decisamente meno rilevante.
Potremmo fermarci qui: nel negoziato su un trattato commerciale di libero scambio la politica gioca nella squadra di chi frena e vuole mantenere i dazi, mentre le aziende italiane firmano contratti e spingono per la liberalizzazione. L’accordo ridurrebbe in un sol colpo i dazi del 90 per cento, rendendo le merci europee più competitive per un mercato in forte espansione. Tuttavia l’esecutivo del secondo paese esportatore d’Europa, il quinto al mondo, è oggi scettico sugli accordi commerciali.
L’accelerazione impressa da Ursula von der Leyen che ha firmato il testo dell’accordo nasce da una considerazione strategica: il trattato creerebbe un’area di libero scambio di 730 milioni di consumatori, pari al 20 per cento del pil globale, fornendo un’alternativa al Brasile e al resto dell’America Latina all’abbraccio definitivo con i Brics e la Cina. Dal punto di vista europeo – con i chiari di luna della guerra commerciale, Donald Trump che promette dazi alle merci europee e la Cina pronta a rispondere alle tariffe Ue sulle sue auto elettriche – ci ritaglieremmo un nuovo mercato di sbocco, con ampi margini di crescita. Per di più nella fase attuale di acuta debolezza dell’industria, che in Italia viene da 20 mesi consecutivi di calo. Non è un caso che tra gli industriali il consenso sia forte, come ribadito dal presidente di Confindustria Emanuele Orsini. Metà delle merci italiane vendute al Brasile, vera economia di riferimento del Mercosur, sono macchinari, apparecchiature e autoveicoli. La manifattura Made in Italy ossatura dell’export. Seguita da chimica e farmaceutica, settori ad alto valore aggiunto. Il nuovo accordo permetterebbe per esempio di tagliare i dazi sulle auto prodotte in Europa, che oggi per essere vendute in Brasile scontano una tariffa del 35 per cento. Una boccata d’ossigeno per l’automotive tedesco, di cui potrà beneficiare la filiera della componentistica italiana. Senza considerare la rilevanza strategica dell’accordo per la fornitura di materie prime: l’Argentina è tra i principali esportatori di litio, il Brasile è ricco di nickel, ferro e grafite.
Ma il governo italiano ha fatto comunque pervenire il proprio disappunto sul testo negoziato dalla Commissione europea. La contrarietà è però meno netta di quella francese, e la sensazione è che basterà qualche rassicurazione per ottenere il voto positivo italiano al Consiglio europeo, necessario per ottenere la maggioranza qualificata. Ma le lobby di agricoltori e allevatori si faranno sentire, come fatto finora. Sono questi i settori che percepiscono i maggiori rischi dall’apertura alla concorrenza verso mercati con costi di produzione inferiori. Riuscendo peraltro sempre a farsi ascoltare dalla politica italiana, nonostante l’agroalimentare rappresenti una quota minoritaria del Made in Italy nel mondo. Per rassicurare gli operatori, l’accordo prevede inizialmente delle quote massime di importazione, che saranno solo progressivamente eliminate.
È una storia già vista. Sul Ceta, l’accordo di libero scambio tra Unione europea e Canada, la contrarietà di agricoltori e allevatori – Coldiretti in testa – portò quasi tutti i partiti politici a opporsi al trattato, che infatti giace ancora non ratificato in Parlamento. Benché sia già in gran parte operativo, grazie alla competenza esclusiva europea sul commercio, con ottimi risultati per i volumi delle aziende esportatrici. Anche agroalimentari.
L’accordo con il Mercosur prevede il riconoscimento in America Latina di 350 indicazioni geografiche europee, tra cui il Parmigiano Reggiano, il Prosciutto di Parma e il Prosecco, di cui non potranno più dunque essere commercializzate copie che ne sfruttano il naming. E’ un numero più che doppio rispetto a quanto negoziato con il Canada.
Buone ragioni, se ce ne fosse il bisogno, per un’economia che fa dell’export la propria vocazione e il proprio orgoglio per votare a favore di un accordo di libero scambio.