Nonostante le promesse, Mosca ha dovuto abbandonare uno dei suoi alleati storici. Quella in Siria è l’ultima delle disfatte putiniane, dopo la perdita dell’Armenia e forse anche della Georgia, segnando il declino della narrazione geopolitica che il Cremlino ha costruito su di sè, e la fine del suo sogno presentarsi all’occidente come attore globale
Il regime di Bashar el Assad è caduto: sul significato di questo crollo e sul futuro della Siria, spetterà agli esperti di medio oriente confrontarsi. Tuttavia, per chi studia la Russia e lo spazio ex sovietico, la questione appare più nitida: la caduta del dittatore siriano rappresenta una sconfitta strategica per Mosca in Siria.
Nel 2016, la propaganda russa celebrava il Cremlino nel suo ruolo di protettore: aveva diffuso un calendario che ritraeva giovani donne siriane sorridenti, grate alla Russia. Sulle immagini, c’erano delle scritte: “Sono tranquilla finché la mia terra è sotto il tuo controllo” e “Il destino della mia Palmira è nelle tue mani”. L’anno successivo, nel 2017, Vladimir Putin si recò a Damasco per ribadire la supremazia russa nella regione con avvertimenti solenni: “Se i terroristi rialzassero la testa, l’esercito russo, dalle basi di Tartus e Hmeimim, infliggerebbe loro colpi mai visti prima”. Oggi, quelle parole suonano come promesse infrante. L’esercito russo si è dimostrato incapace di difendere Assad e persino di contrastare quei “terroristi” che Putin diceva di saper sconfiggere. Alla fine, Mosca ha dovuto abbandonare uno dei suoi alleati storici.
Nel 2014, Barack Obama definì la Russia una “potenza regionale”, un’affermazione che irritò profondamente il Cremlino. Eppure, oggi, dopo aver intrapreso una guerra disastrosa contro l’Ucraina, Mosca rischia di non essere nemmeno più una potenza regionale. La disfatta in Siria si inserisce in un contesto più ampio di declino geopolitico. La perdita della Siria arriva dopo quella dell’Armenia, lasciata al proprio destino nel conflitto con l’Azerbaigian. Nel 2023, l’alleanza tra Baku e Ankara si trovò di fronte un Cremlino incapace di reagire, e così l’Azerbaigian riuscì a riconquistare il Nagorno-Karabakh e le sette regioni adiacenti, chiudendo decenni di stallo. Intanto in Asia centrale, la Russia arretra, mentre la Cina consolida progressivamente la sua influenza. E la Georgia potrebbe presto aggiungersi alla lista delle sconfitte putiniane, segnalando ancora una volta il declino di una potenza che, un tempo, aspirava al controllo globale.
L’intervento militare russo in Siria nel 2015 segnò l’inizio di una politica estera più assertiva. Putin intendeva dimostrare all’occidente il ritorno della Russia come attore globale. Tuttavia, mantenere questo status e proteggere la propria presenza in medio oriente ha comportato costi significativi. In termini umani, l’intervento ha richiesto sacrifici, con i soldati russi caduti nel tentativo di salvare Assad. Economicamente, sostenere il regime siriano è stato un salasso per i contribuenti russi: dal 2015, Mosca ha speso circa 4 milioni di dollari al giorno, cifra raddoppiata con il rafforzamento delle truppe nel paese. Nel 2020, la Russia ha stanziato un ulteriore miliardo di dollari per scopi “umanitari”. Ora il futuro delle basi militari russe in Siria è incerto, ma il danno politico per il Cremlino è evidente: la disfatta siriana dimostra non tanto la mancanza di volontà, quanto l’incapacità della Russia di essere presente su tutti i fronti.
L’incapacità di sostenere Assad si spiega principalmente con la guerra in Ucraina. L’“operazione militare speciale” di Mosca, inizialmente concepita come un’azione lampo, si è trasformata in un conflitto logorante di quasi tre anni. Durante questo periodo la Russia ha dovuto persino reclutare soldati nordcoreani e ha perso il controllo di parte del proprio territorio, come dimostra l’occupazione ucraina della regione di Kursk. La Russia non è riuscita a proteggere Kursk, figuriamoci salvare ancora una volta Assad.
In Russia, gli esperti ironizzano definendo la disfatta siriana come “l’Afghanistan di Putin”. Vladimir Pastukhov, pubblicista, la interpreta invece come “il Vietnam del Cremlino”, perché, sebbene il ritiro degli americani dall’Afghanistan nel 2021 e quello dei sovietici nel 1989 fossero eventi pianificati (che si svolsero in modo sciagurato), la disfatta della Russia in Siria non è stata prevista. Tale disfatta non riguarda tanto la sopravvivenza dello stato russo, che può prescindere dalla presenza in medio oriente, quanto piuttosto la narrazione geopolitica che il Cremlino aveva costruito intorno a sé. La Siria era stata trasformata in un simbolo del potere ritrovato della Russia sulla scena internazionale. La propaganda sosteneva che i successi militari in quella regione fossero la prova che Mosca si stava risollevando e poteva aspirare nuovamente a un ruolo di potenza globale. Oggi spiegare l’impotenza della Russia diventa una sfida ardua per i propagandisti del Cremlino.
Con la caduta del regime di Assad, crolla anche il mito dell’invincibilità della Russia. Questo segna forse l’inizio della fine del regime di Putin? Forse sì, forse no. Ma il caso siriano ci insegna una lezione fondamentale: è inutile avventurarsi in profezie sulla longevità dei dittatori.
Nona Mikhelidze, responsabile di Ricerca presso lo Iai