L’attendismo della Cina sulla nuova Siria, mentre spinge l’acceleratore sulla sua agenda

Il leader Xi Jinping perde Assad e si concentra sulle sue priorità (i dittatori deposti non sono un grande spot per il Partito comunista cinese). In aumento le pressioni su Taiwan e Filippine

Ieri Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, è andata in conferenza stampa e ha ripetuto per diverse volte la stessa frase, che funziona come un mantra tutte le volte che la leadership cinese ha bisogno di prendere tempo per capire come sfruttare una crisi a proprio vantaggio: “La Cina segue da vicino la situazione in Siria e spera che le parti interessate tengano presente l’interesse fondamentale del popolo siriano e trovino al più presto una soluzione politica che ripristini la stabilità in Siria”, ha detto Mao. La Cina di Xi Jinping era legata al regime di Bashar al Assad, e l’anno scorso era stato ambientato proprio a Pechino il ritorno sulla scena internazionale del dittatore siriano dopo gli anni di guerra civile. Pechino, allineata con la Russia e l’Iran, aveva dato sostegno economico e politico alla Siria, che nel 2022 era entrata ufficialmente nel grande progetto strategico della Via della seta, ma a differenza della Russia – forse proprio a causa della Russia – non aveva fornito assistenza concreta, né militare né civile, e pure l’impegno delle aziende cinesi per la ricostruzione siriana non era stato considerato degna di nota. Secondo diversi esperti ascoltati dal Foglio la leadership cinese in casi come questi attende e osserva la costruzione della nuova leadership: la capacità di anticipare mosse diplomatiche non è nella tradizione dei funzionari cinesi, che soprattutto in medio oriente non hanno intelligence e si muovono spesso in competizione con la Russia. La scelta sul breve termine di Pechino è sempre l’attesa, senza inimicarsi nessuno degli attori in arrivo, sfruttando l’attenzione del mondo altrove per andare avanti con la sua agenda. (E naturalmente evitando la sovraesposizione mediatica dei dittatori deposti, che in generale non sono un grande spot per il Partito comunista cinese).



Da ieri le Forze armate di Taiwan sono in stato di massima allerta. Pechino ha annunciato infatti di aver chiuso lo spazio aereo nell’area orientale delle province dello Zhejiang e del Fujian fino a domani. Questo genere di annunci preludono di solito a esercitazioni militari, e questa settimana il governo di Taipei si aspetta che la Cina ne faccia di imponenti per rispondere al viaggio del presidente taiwanese William Lai dagli alleati del Pacifico, le Isole Marshall, Tuvalu e Palau, durante il quale ha incluso due tappe su territorio americano, alle Hawaii e nel territorio di Guam. Già nel pomeriggio di ieri c’erano circa novanta navi sia della Marina sia della Guardia costiera cinesi nelle acque contigue all’isola di Taiwan. Le Forze armate di Pechino usano di frequente l’intimidazione militare contro la Repubblica di Cina – il nome formale di Taiwan – per mostrare sia alla propaganda interna di essere pronte all’uso della forza per prendersi l’isola, sia per mandare un messaggio di pericolo e d’invasione imminente all’opinione pubblica taiwanese. A maggio, poco dopo l’insediamento di Lai, c’erano state le esercitazioni militari “Joint Sword 2024 A”, e poi a ottobre la “Joint Sword 2024 B”, più contenuta nel dispiegamento di forze ma non meno minacciosa. Secondo il Financial Times “le precedenti esercitazioni simulavano esplicitamente un blocco e un’invasione, ma erano incentrate relativamente su Taiwan e coinvolgevano solo il comando del Teatro orientale dell’Esercito popolare di liberazione”. I preparativi visti ieri, “che coinvolgono anche altri comandi, sembrano indicare qualcosa di più ampio”.



L’agenda di Pechino riguarda per ora l’Indo-Pacifico e ha come priorità il Mar cinese orientale e quello meridionale, ma l’alleanza militare con la Russia (e l’Iran) è un problema anche per l’Europa. Soltanto ieri un gruppo navale della Flotta russa del Pacifico ha concluso la sua visita al porto cinese di Qingdao, poco più di due mesi dopo le ennesime esercitazioni navali congiunte nel Mar del Giappone. La scorsa settimana è avvenuto poi l’ennesimo scontro che avrebbe potuto portare a una crisi ancora più seria fra Pechino e Manila: alcune navi della Guardia costiera cinese hanno sparato con cannoni ad acqua e hanno colpito lateralmente una nave dell’Ufficio della pesca e delle risorse acquatiche delle Filippine che trasportava rifornimenti ai pescatori filippini che operano nella secca di Scarborough – un’area marittima delle Filippine rivendicata illegittimamente da Pechino insieme a praticamente l’intero Mar cinese meridionale. Le navi della Guardia costiera filippina hanno dovuto affrontare “blocchi e manovre pericolose” da parte di una nave della marina cinese. Domenica sera, in un post su Truth, il presidente eletto Donald Trump ha chiesto un cessate il fuoco e negoziati fra Ucraina e Russia per porre fine “alla follia” della guerra, e ha scritto che su questo “la Cina può aiutare. Il mondo sta aspettando!”. L’agenda di Xi Jinping non è la stessa di Putin, ma gli somiglia moltissimo.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: “Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l’Asia”, “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.

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