Una vicenda surreale di musica e articolo 18, di serate danzanti e sentenze della Cassazione. La confutazione della celebre massima di Marx: se la storia è tragedia quando accade e farsa quando si ripete, da noi la cronaca riesce a essere tutto insieme
“Il furbetto del piano bar” potrebbe essere il titolo di una commedia all’italiana o della canzoncina arguta di qualche sferzante cantautore. Racconterebbe di un dipendente della Cotral, azienda di trasporti laziale, che si mette in malattia per stato ansioso, ma viene sorpreso a fare il cantante in qualche localino; l’azienda lo licenzia allora per giusta causa, tuttavia la Cassazione dispone il reintegro del dipendente, ritenendo che l’attività ricreativa non fosse in contrasto con il permesso per motivi di salute e, anzi, potesse venire reputata parte integrante della terapia. In questa storia di musica swing e articolo 18, di serate danzanti e sentenze della Suprema corte, c’è la confutazione della celebre massima di Karl Marx: se la storia è tragedia quando accade e farsa quando si ripete, da noi la cronaca riesce a essere entrambe le cose simultaneamente. Infatti, se si riesce a guardare dietro l’assurdità del caso, questa notizia mostra un conflitto fra chi sostiene che l’anima di un individuo sia proprietà del datore di lavoro e chi cerca di difendere il diritto a cantare anche se si è troppo depressi per lavorare: in Inghilterra ne trarrebbero un trattato di filosofia, in Francia un poema epico, in Germania un dramma metafisico in cinque atti. In Italia, il massimo che riusciamo a cavarne è una storiella che, se non facesse ridere, farebbe riflettere.