Alla fiera della piccola e media editoria (e delle grandi polemiche quest’anno) c’è di tutto: Magalli sulla Carrà, Saviano sul Kalashnikov, Augias a braccio sull’Italia che verrà. E sembra il concertone del Primo maggio. Molti applausi, sipario
Dopo averne così tanto sentito parlare, decidiamo per una full-immersion in questo “Più Libri Più Liberi”, fiera della piccola e media editoria e grandi polemiche che hanno fatto da promo all’edizione di quest’anno: vengo, non-vengo, boicotto, passo per un saluto a Chiara Valerio o forse meglio di no. Siamo qui, nell’Eur dei grandi assi ortogonali, fuori dalla Roma dell’overtourism, tra gli scatoloni di Piacentini e il Palazzo della Civiltà Italiana, nella vasta e ipnotica “Nuvola” di Fuksas, sospesa nella grande teca di vetro, come un “Millenium Falcon” del Pd romano che questa Nuvola l’ha fortemente voluta (ricordiamo Veltroni immortalato in tante “pose della prima pietra”). Quando i romani vengono alla Fiera si sentono un po’ milanesi perché possono addirittura venirci in metro, come in una grande città qualsiasi. Niente traffico, buche, cantieri, doppie file. La possibilità di darsi appuntamenti precisi, “ci vediamo alle sei davanti alla Nuvola”, subito poi specificando, “vengo in metro”, che a Roma significa “ce la farò”. La Fiera non è il Salone di Torino, non è Francoforte. Quel “piccola e media editoria” vuol dire anche resistenza culturale, nicchia, passione, comunità, liberi dal mercato. Calano le vendite dei libri, aumentano i visitatori della Fiera. Se il Salone è il Sanremo dei libri, la Fiera è forse il Coachella o il concertone del Primo maggio con Chiara Valerio al posto di Ambra.
Nell’attesa all’ingresso sfoglio il programma – un’agile brochure di settanta pagine preceduta da una piantina della Nuvola che si rivelerà un inganno. C’è di tutto: Magalli sulla Carrà, Travaglio sulla Russia, Damilano sui migranti, Saviano sul Kalashnikov, Sgarbi sulla natività, Augias a braccio sull’Italia che verrà, e tavole rotonde su Bruce Lee, il Risorgimento, Frate Indovino 80 anni dopo, sessioni di “happygenetica”, gruppi di lettura, lezioni di podcast, “Lotta al patriarcato e uomini femministi”, “femminismi palestinesi”, un interessante “femminismo terrone, per un’alleanza dei margini”, e ancora “viaggi nella cucina popolare palestinese”, aborto, ecosostenibilità nello spazio, tanto fumetto, tanto yoga, tanta magia, tanta Gaza, molti eventi per ragazzi, tipo “Ti presento la Traviata”, “No al bullismo, sì al bellismo!”, “La Costituzione nelle parole”, “Vivere il cantico delle creature”, per la gioia di genitore uno e genitore due. Muoversi nei tre piani della Nuvola però non è facile. Ci sono varie scale mobili dislocate, punti ciechi, il trompe-l’œil tipico dei non-luoghi. Googlando scopro che nella Nuvola “opera una concezione fluida dello spazio”, che è una “sinfonia di vetro e acciaio”, che è “il capolavoro di Fuksas”, il Paolo Sorrentino dell’architettura. A me sembra un aeroporto di sessantamila metri quadri senza negozi, la stazione di Bologna senza indicazioni, o il contenitore ideale per esperienze di premorte, coi corridoi di luce bianca, i parenti defunti e magari anche Fuksas che ti salutano in lontananza. La piantina non aiuta e bisogna lasciarsi andare, seguire il flusso dei visitatori, vagare.
La prima cosa che si nota è che è l’unico posto a Roma dove alle presentazioni dei libri c’è più gente che allo “spazio gastronomia”, che è invece spoglio, desolato, aeroportuale e un po’ punitivo. Qui c’è fame di cultura. Passo davanti a uno stand e sento un intervento dal pubblico, “no niente, volevo solo dire che io i libri li amo, li venero, se qualcuno mi dice ‘ho svuotato la mia cantina di libri’ io lo disprezzo, non riesco più a guardarlo in faccia”. Applausi. Ci sono gli stand regionali come alle sagre (“Puglia: parole a sistema”, “Consiglio regionale della Basilicata”), quello della Banca d’Italia coi report e i resoconti annui, lo stand della polizia con “Il commissario Mascherpa”, il “primo fumetto poliziesco della Polizia di Stato”, naturalmente deserto, e poi gli stand di oscure case editrici, però insieme a Nave di Teseo, Mulino o lo stand Adelphi con ragazze languide, frangetta francescana, che sfogliano Manganelli e Irène Némirovsky (lo stand Adelphi è forse il punto-rimorchio della Fiera). Ce n’è uno in cui non riesco a contare il numero di libri su Berlinguer. C’è quello con le “tisane filosofiche”. Un altro che vende vecchi titoli azionari d’epoca (ne compro uno della Montecatini, non si sa mai). Agli stand ti agganciano peggio che i buttadentro ai ristoranti di Trastevere. Ti fermi a vedere un libro e sei circondato, “vedo che sta guardando i miei volumi di poesia, sono una della poche poetesse rimaste al mondo, se vuole gliene recito una qui”, “no, grazie”. Ho paura a passare davanti allo stand della Treccani con l’Enciclopedia in bella mostra.
Sto cercando l’Arena Repubblica dove Ascanio Celestini, Luigi Manconi e Stefano Cappellini duelleranno sul grande tema dell’egemonia culturale, anzi sulla “presunta egemonia della sinistra e il solito piagnisteo della destra”. Li trovo incorniciati tra prime pagine di Repubblica, colonnine di manga giapponesi, guide turistiche dell’Espresso. Hanno iniziato da pochi minuti. L’Arena Repubblica è di gran lunga la più frequentata della Fiera. C’è Ascanio Celestini che dice che la destra sta smontando la produzione culturale del paese, “coi berlusconiani ancora ancora si lavorava ma con questi no”. Evoca regioni in cui non si può più entrare, poi la prende un po’ alla lontana, torna su Salò, le foibe, i fascisti che non sono mai stati processati, i partigiani disarmati dopo la guerra. “Abbiamo una Costituzione antifascista ma un paese un po’ fascista”. Proprio in questo momento “mentre noi siamo qui a parlare di libri la destra sta riscrivendo le linee guida delle elementari”. E qui un brivido corre sui cappotti delle tante professoresse democratiche che lo ascoltano in piedi, in silenzio, sgomente. Poi dà la parola “al compagno Manconi”. “La questione dell’egemonia culturale va posta su due piani”, spiega Manconi, “prima c’è quella della produzione culturale, dove questi qui hanno solo Prezzolini, i futuristi e Povia: insomma, non c’è una poesia di destra” (se è una poesia non è di destra, e se è di destra non è una poesia). Poi però c’è un altro piano: “è il voto degli italiani”, dice Manconi. Quindi “siamo un paese di destra ma con una cultura di sinistra” (e rivendica il ruolo progressista di Sanremo che resiste alle grinfie egemoniche della destra). Ma la vera egemonia che deve preoccuparci, spiega, è quella che “fa presa sulla mentalità”. Per esempio, “l’attacco al concetto di sciopero, solo perché Landini ha detto ‘rivolta sociale’ che sono invece due parole classiche e gloriose della sinistra”. E qui applausi, applausissimi, la groupie di Manconi accanto a me sospira e dice “è vero! è vero! quant’è vero!”, e anche Celestini vuole prendersi le briciole di questo lungo applauso e alza il tiro: “lo sciopero non è un diritto ma un dovere”. E io starei le ore ad ascoltare questi tre maschi, bianchi, privilegiati, di sinistra, che parlano dell’egemonia culturale di Giorgia nel segno del pluralismo e del confronto delle idee, ma non voglio perdermi Saviano sul Kalashnikov e allora li mollo lì, al culmine del climax sindacale.
Saviano è lontanissimo. Bisogna attraversare tutta la Nuvola facendo attenzione a non finire in un punto cieco. Mi faccio largo tra la folla, chiedo, ma è uno di quei posti in cui nessuno sa bene dove si trova. Più libri, più liberi, ma non di uscire dalla Nuvola. Passo accanto a una ragazza che fa all’amica, “toooggiuro…ti dico che è lui…è Zerocalcare eccooollì”, e oltre me la sentono in parecchi e la folla si blocca, uno sciame di persone si sposta, parte la caccia a Zerocalcare ma è un falso allarme, soltanto un tizio con la felpa nera e il cappuccio tirato su. Finalmente trovo la sala dell’evento, “650 al minuto. L’incredibile storia del Kalashnikov. Monologo di Roberto Saviano”. Arrivo tardi. Solo posti in piedi. Saviano in piedi, davanti al leggio, e tutti con cuffie wireless hi-fi, blu fosforescenti. Sembra il lancio di un vecchio IPhone. Saviano parla, la voce si sente bene, non capisco il senso delle cuffie. “E’ un evento Audible”, mi spiegano mentre mi consegnano il mio paio di cuffie, “è per favorire l’immersività”. “Certo, certo”. L’evento Audible è Saviano che mi parla nelle orecchie e dice “questa è la sensazione di potenza di tenere in mano un Kalashnikov”, come se tutti lì dentro la conoscessimo bene. Ma nelle cuffie neanche una smitragliata, un po’ di Kalashnikov, un qualche sound-design che dia senso a quell’esperienza immersiva. E’ invece un monologo estenuante, letto maluccio, tipo fiabe sonore, che vorrebbe essere come sempre in Saviano anche molto cinematografico e calarci nelle strisce di guerra del sud del Sudan con frasi come “l’olezzo del caricatore fumante” o “le raffiche di Kalashnikov che crepitano nelle strade e lasciano il groppo in gola ai ragazzini”. Mollo anche questo. Torno all’Arena Repubblica. Corro da Augias.
Eccolo lì, elegantissimo, in tweed blu, come un ambasciatore a Londra del Gruppo Espresso. L’intervento si chiama, “Italia: che fine faremo?” E’ praticamente un editoriale di Mauro Corona da Bianca Berlinguer, ma in versione Augias, pacata, borghese, riflessiva, metropolitana e non montanara. Augias sulla finanziaria che è un disastro (“non c’è una lira”!), Augias che cita anche lui Landini, idolo dell’Arena Repubblica, “i soldi della finanziaria dobbiamo prenderli dagli evasori, noi siamo borghesi stipendiati, le tasse le paghiamo” (applausi). E Augias sulla Corea del Sud che “ora ci si è messa anche lei”, sulla “rivoluzione di internet”, sull’intelligenza artificiale che “non sappiamo dove ci porterà”. Ma poi c’è il “dovere della speranza”, spiega Augias. “Sapete come diceva il grande Eduardo?” E qui tutti in coro a voce alta o col labiale come a messa ripetono e scandiscono con Augias “adda passa ‘a nuttata”. E lui poi si gusta l’applauso, lo assapora, mentre e sul video si intravede già Roberto Vecchioni pronto a collegarsi con Gino Castaldo. E’ un “momento Repubblica” in purezza.
Ma proprio lì dietro, nello stand della Rai, ci sono anche Arbore e Gegè Telesforo che arboreggiano. Arbore sul filo dei ricordi che ormai sono ricordi di tutti: le trasmissioni di Arbore, le donne di Arbore, le sigle di Arbore. Poi una piccola controegemonia con Arbore che dice “i cattocomunisti mi mandarono via dall’Altra Domenica”, e ricorda Marenco, “il più grande di tutti” e Bracardi che girava per i corridoi della Rai coi denti di Dracula. Arbore orchestra le risate col metronomo, il pubblico lo segue. Non c’è l’avvilimento, la tensione riflessiva, la paura del fascismo sempre incombente come nell’Arena Repubblica. Sembrano due Italie, anche se una di fianco all’altra, due popoli, due stand. Ma per me è tardi. Devo rientrare. Mi perderò “Palestina Pop” che mi ero segnato sul programma. E invece no. Perché all’uscita, proprio davanti alla Nuvola, ecco in sostituzione un gruppo di agit-pro-pal. Sarà un flash-mob? Un fuori-Fiera? Un evento in programma? Sono pochini però urlano a squarciagola nei microfoni che fischiano, musichetta araba in sottofondo: “La cultura non è neutraleeee! la cultura deve denunciareeee!” E si rotolano nel pratino lì davanti, si avvolgono nelle bandiere della Palestina, mentre due poliziotti della Municipale che li sorvegliano guardano un video sullo smartphone. I pro-pal attaccano in coro il refrain, “Stop ge-no-ci-dio! Stop ge-no-ci-dio!”, ma inizia a piovere, qualcuno riavvolge le bandiere. E’ buio. Sfreccia tutto intorno il traffico velocissimo della Cristoforo Colombo. Piano piano, tornano a casa anche loro.