Ci aveva provato Ray Charles nel 1962, nel pieno delle lotte del movimento per i diritti civili, quando l’America cercava di sanare la piaga della segregazione razziale. Ci ha riprovato Beyoncé in questo 2024, l’anno in cui per la prima volta gli Stati Uniti hanno avuto una donna nera, Kamala Harris, candidata alla Casa Bianca. Il risultato è sempre lo stesso: quando un artista nero si confronta con il country, la musica “dei bianchi” per eccellenza, può raccogliere critiche entusiaste, successo di pubblico e scalare le classifiche delle vendite. Ma viene comunque percepito come un estraneo, qualcuno che cerca di entrare in un ambiente dove non è ritenuto membro a pieno titolo della comunità.
Il 20 novembre scorso il mondo del country si è riunito alla Bridgestone Arena di Nashville, in Tennessee, la capitale della musica resa celebre da Johnny Cash, John Denver, Willie Nelson, Dolly Parton e le Dixie Chicks. L’occasione era la cinquantottesima edizione dei Country Music Association Awards (Cma), l’oscar del genere musicale più amato nell’America rurale. Il 2024 è l’anno in cui un album country ha dominato le classifiche musicali americane, debuttando al primo posto nella Billboard 200. E’ “Cowboy Carter”, l’ultimo lavoro di Beyoncé, una delle artiste di maggior successo nella storia della musica pop planetaria. Un singolo tratto da quell’album, “Texas Hold ‘Em”, è stato per mesi al primo posto della classifica Hot Country Songs negli Stati Uniti. Eppure a Nashville quella sera Beyoncé non c’era, perché non ha ricevuto neppure una nomination. Neanche per un premio minore. E questo nello stesso anno in cui “Cowboy Carter” ha ricevuto undici nomination ai Grammy e i suoi singoli hanno trionfato in tutti i premi musicali assegnati nel 2024.
L’episodio di Nashville ha riaperto un dibattito non solo sul country, ma più in generale sull’eterna questione razziale americana. Quando si accusa una parte degli Stati Uniti di essere in preda al wokismo, molto spesso si dimentica di ricordare che dietro agli eccessi della cultura woke e ai suoi tentativi di cancellare diseguaglianze, ci sono due secoli e mezzo di una storia drammatica che ancora fatica a essere superata. L’America ha fatto molta strada dall’epoca tragica della schiavitù e da quella più recente della segregazione e delle leggi Jim Crow nel sud. Ma sottotraccia resta ancora, in alcune parti del paese, una resistenza di fondo che è difficile da scalzare. Soprattutto quando si tratta di fare i conti non solo con un nero, ma in particolare con una donna afroamericana. Non è sicuramente questo il motivo per cui Kamala Harris non ha vinto la presidenza, ma i sette milioni di voti in meno che ha preso rispetto a Joe Biden nel 2020 andranno studiati a fondo anche da questo punto di vista.
La Cma ha ovviamente respinto qualsiasi accusa di discriminazione razziale nei confronti di Beyoncé. Il Washington Post è andato a intervistare, in forma anonima, alcuni dei 6.609 giurati del premio e la spiegazione che gran parte di loro hanno dato è che non amano premiare chi fa un’irruzione episodica nel loro genere musicale, senza dedicare la propria intera carriera al country e senza vivere i luoghi simbolo della musica di Nashville. Neppure se si tratta di un’artista con chiare radici nel sud come la texana Beyoncé. Una giustificazione legittima, ma è rimasto il dubbio che in realtà c’entrino molto il colore della pelle, il genere femminile e anche la politica, visto l’endorsement che Beyoncé ha fatto per la Harris (comparendo anche con lei a un comizio in Texas) e la scelta della candidata democratica di usare “Freedom” come brano di apertura di ogni suo evento pubblico. Circostanza che sicuramente non ha scaldato i cuori in Tennessee, uno stato che Donald Trump ha vinto quest’anno con il sessantaquattro per cento dei voti.
Prima di Beyoncé, solo sette artiste nere sono riuscite a entrare nella classifica Hot Country Songs e solo una volta, in cinquantotto edizioni dei premi della Cma, è stato assegnato un riconoscimento a una cantante afroamericana. E’ accaduto lo scorso anno, ma si trattava di Tracy Chapman, premiata in coppia con il giovane re del country Luke Combs, solo perché quest’ultimo ha dedicato una cover di successo a “Fast Car”, il brano che nel 1988 fece conoscere al mondo l’artista nera. Il premio in realtà formalmente lo ha vinto Combs, ma un riconoscimento è andato anche alla Chapman per la versione che hanno inciso insieme. Negli anni Ottanta, quando “Fast Car” dominava le classifiche americane, nessuno nel mondo country pensò neanche lontanamente di nominarla per gli oscar di Nashville.
La musica è da sempre l’ambito in cui le tensioni razziali statunitensi entrano in cortocircuito. E’ accaduto con il jazz, musica americanissima nata nel cuore delle comunità nere del sud che si tramandavano le tradizioni africane degli antenati schiavi. A renderla un genere musicale di successo furono nei primi tempi orchestre di soli bianchi come la Original Dixieland Jazz Band, la prima a sfruttare commercialmente la nuova musica nata a New Orleans. Con il passare del tempo fu lasciato spazio agli artisti neri, ma solo per intrattenere platee dalla pelle chiara: al celebre Cotton Club di New York i neri potevano stare sul palco a suonare, ma non sedersi in platea a consumare un drink.
Nel caso del country, i cultori ne tracciano le origini nella musica hillbilly che si diffuse alla fine dell’Ottocento nella parte meridionale dei monti Appalachi, tra Tennessee, Georgia, Alabama e le due Carolina. Era una musica rurale fatta di banjo, chitarre, violini e testi che parlavano di amore e vita agricola. Ma nello stesso periodo nel sud degli Stati Uniti si diffondeva nelle comunità afroamericane anche quella che fu ribattezzata race music, influenzata dal blues e dai gospel e caratterizzata da un ampio uso delle percussioni.
Oggi la cultura woke ha reso politicamente scorrette entrambe le espressioni, hillbilly e race music, ma la verità è che si tratta di generi che si intrecciavano e convivevano, spesso con platee di ascoltatori che apprezzavano entrambi, ma che culturalmente si fece di tutto per tenere separate. Perché si preferiva che ci fosse una chiara distinzione tra musica “bianca” e “nera”. Ecco così che la narrazione prevalente fu quella di due mondi che procedevano paralleli senza incontrarsi. Dal genere hillbilly intorno agli anni Quaranta del secolo scorso nacque la definizione di “country” e derivazioni varie come l’honky-tonk e poi il rock and roll. Dalla race music si costruì invece il mondo del rhythm and blues (R&B), e poi quelli del soul, funk, hip-hop, fino al rap contemporaneo.
In realtà le radici erano in gran parte comuni. A indagare le origini, si scoprono molte sorprese. Nelle scorse settimane ha fatto scalpore negli Stati Uniti la notizia del ritrovamento, in una soffitta, di un vecchio cilindro di quelli utilizzati per le prime, rudimentali incisioni discografiche. Si è scoperto che sopra c’è incisa una versione del 1891 di “Thompson’s Old Gray Mule”, un brano che molti anni dopo è diventato un classico della musica country. Solo che la voce sul cilindro è quella di un noto cantante nero di New Orleans, Louis Vasnier. Cioè: il più antico brano country di cui sia mai stata trovata traccia è stato inciso da un nero.
Tenere separate le tradizioni musicali bianche e nere è stata una forzatura proseguita nel tempo, quando invece le radici sono sempre state comuni. E la segregazione razziale che ha resistito fino alla fine degli anni Sessanta ha fatto il resto, alzando barricate contro gli artisti che cercavano di superare le divisioni. Elvis Presley è stato a lungo accusato, soprattutto negli stati del sud, di essere un bianco che cantava e faceva musica “da neri”. A Ray Charles è successo l’opposto. Il genio cieco della musica soul nel 1962 stupì il mondo con un album che è rimasto tra i suoi capolavori, “Modern Sounds in Country and Western Music”. Era una svolta country per Charles, ma era anche qualcosa di più: era un modo per far capire come la musica ritenuta esclusiva dei bianchi, in realtà diventasse ancora più affascinante se contaminata dalla tradizione musicale nera.
Il pubblico e la critica tributarono un enorme successo all’album di Ray Charles, si arrivò a farlo entrare ufficialmente nella Hall of Fame della musica country, di cui fu ritenuto un legittimo esponente. Un riconoscimento significativo anche alla luce del fatto che il cantante in quel momento non era esattamente un beniamino nel sud del paese. Nel 1961, un anno prima di “Modern Sounds”, era stato messo al bando dal governo statale della sua Georgia, dominato dai segregazionisti bianchi, per essersi rifiutato di cantare in un teatro con la platea segregata (solo nel 1979 la Georgia si è formalmente scusata con lui, adottando tra l’altro “Georgia on my mind” come inno ufficiale dello stato).
Ma Ray Charles e i suoi “Modern Sounds” non sono stati sufficienti a far cadere le barriere razziali intorno al country. L’idea che i neri siano intrusi quando si cimentano con i generi musicali eredi della tradizione hillbilly è rimasta radicata. Come adesso ha scoperto anche Beyoncé. Se non è razzismo ed eredità genetica della segregazione, è qualcosa che gli somiglia molto.
Lo sa bene Cleve Francis, un cardiologo afroamericano che insieme agli studi di medicina aveva sempre coltivato una passione per il country. Alla fine degli anni Ottanta, già quarantenne e con una carriera medica di successo, decise di tentare il salto: mise da parte la cardiologia, si spostò dalla Virginia a Nashville, indossò un cappello da cowboy e cominciò a dedicarsi seriamente al suo sogno di sfondare come cantante country. Ci riuscì e i suoi brani nei primi anni Novanta raggiunsero quattro volte la vetta della classifica Hot Country Songs. Dal punto di vista del marketing, l’idea di un “country music doctor” di colore sembrava vincente e per qualche anno lo fu. Ma ben presto, ha raccontato Francis, si accorse che a Nashville gli facevano terra bruciata intorno. Non era invitato ai concerti che contano, le radio lo ignoravano, le etichette musicali erano titubanti nel promuoverlo. Nel giro di poco tempo, Francis mollò tutto e tornò a fare il cardiologo. Oggi è un pensionato ottantenne che si batte per i diritti dei neri nel mondo della musica “bianca”.
“Ci hanno sempre voluti divisi, ci hanno tenuti separati dai tempi della divisione tra musica hillbilly e race”, è la denuncia che lancia da tempo Rhiannon Giddens, una celebrità della musica americana. Maestra del banjo, la Giddens è una musicista country nera ed è molte altre cose. Si cimenta nel folk, nel soul, nel blues, perfino nei brani della tradizione gaelica ed è forse per questa sua moltitudine di talenti che non viene racchiusa in una categoria specifica. Ha vinto più volte i Grammy e persino un Pulitzer per la musica, ha suonato al fianco di Beyoncé, ma neppure lei per ora riesce a farsi prendere sul serio dai giurati della Country Music Association.
“Ogni volta che un artista nero pubblica una canzone country – ha scritto Rhiannon sul Guardian, quando sono cominciate a circolare le critiche a Beyoncé – i giudizi, i commenti e le opinioni si susseguono rapidamente. ‘Quello non è vero country!’. ‘Questa è appropriazione culturale’. ‘Deve stare al suo posto’. Ma adesso, dopo cento anni di cancellazioni, false narrazioni e razzismo costruito nell’industria del country, è importante portare alla luce la co-creazione da parte dei neri della musica country americana. E creazione è la parola giusta, non semplicemente influenza”.
Rhiannon con il suo banjo, come Beyoncé, appartiene a una nuova generazione di cantanti nere che vogliono abbattere l’ultima barriera che resiste nel mondo musicale americano: “Nessuno possiede il country – dice – perché è una musica nata per condividere le radici di tutti e per esprimere la nostra gioia di vivere”.