Nobel a metà. Nel 1974 il premio per l’Economia andò, oltre che a Myrdal, ad Hayek

Una svolta liberale dopo anni di sbornia keynesiana. L’economista svedese ha spiegato come la produttività possa aumentare solo accrescendo il capitale, mentre l’austriaco ha lavorato sulla teoria monetaria, sulle fluttuazioni economiche e sulle analisi sull’interdipendenza dei fenomeni economici

Il Nobel per l’economia nasce sessantotto anni dopo gli altri. L’inventore della dinamite non si era curato degli economisti, ci dovette pensare la Banca nazionale svedese. I primi studiosi a fregiarsene, tutti pesi massimi, avevano partecipato, chi a Marengo chi a Jena, alla grande campagna keynesiana che aveva travolto la disciplina. Nel 1974, qualcosa cambia. Due i vincitori, com’era già avvenuto nel ‘69 e nel ‘72. Uno è svedese, impegnato in politica, ha fatto pure il ministro del commercio, Gunnar Myrdal. E’ la metà di una coppia Nobel: sua moglie Alva otterrà il riconoscimento per la pace otto anni dopo.

Come rimedio all’inflazione Usa, all’epoca all’11 per cento, Myrdal raccomanda controlli sui prezzi e sui salari. S’interessa di quello che allora si chiamava “terzo mondo”. Spiega che la povertà è un “circolo vizioso”. Tradotto: i paesi sono poveri perché sono poveri. Si risparmia a malapena perché i redditi sono bassi. I redditi sono bassi perché bassa è la produttività. La bassa produttività riflette la scarsa dotazione di capitale, che però non può aumentare in assenza di risparmio. Il cerchio lo si spezza in un modo soltanto: accrescendo la dotazione di capitale, affinché possa aumentare la produttività. Ma siccome non c’è risparmio privato a sufficienza, devono entrare in gioco investimenti pubblici, finanziati dalla comunità internazionale.

Col tempo, ci si è accorti che sostenere i governi dei paesi poveri spesso equivale a finanziare le élite, corrotte, che li opprimono. L’altro vincitore, interrogato sugli aiuti allo sviluppo, avrebbe probabilmente osservato che la corruzione è l’ultimo dei problemi. Il guaio è che non è il semplice “investire”, impiegare risorse a vantaggio della costruzione di un nuovo impianto o dell’acquisto di macchinari, a consentire, e men che mai a “garantire” la crescita. Chi investe si attende un ritorno, quel ritorno è incerto ed è condizionato da elementi i più diversi. Il cambiamento tecnologico sfugge al nostro controllo, e così pure l’evoluzione delle preferenze dei consumatori, di coloro cioè che andranno ad acquistare i beni realizzati attraverso quegli investimenti. Nessuno può prevedere il futuro, ma più ci allontaniamo dalla produzione e più i nostri vaticini si riveleranno sballati. La decisione di che cosa produrre e di quali fattori produttivi avvalersi può essere “trasferita” a un pianificatore solo al costo di perdere per strada le informazioni veramente necessarie per prenderla. Queste ultime infatti sono conoscenze che il singolo imprenditore accumula e gestisce spesso intuitivamente. Non possono essere trasformate in statistiche, a uso dei ministeri.

Quest’altro Nobel è austriaco, ha insegnato a Londra e a Chicago, a Chicago però non economia, stava nel Committee on Social Thought, una specie di super-dottorato nelle scienze umane e sociali. Da vent’anni si dedica alla storia del pensiero e alla teoria politica. Rientrato in Europa, va a Friburgo prima, dove ragiona su come si sviluppano le norme sociali alla luce della teoria dell’evoluzione, poi a Salisburgo. Premiato in Svezia, uno che sta alla periferia della disciplina? Quando, accanto a quello di Myrdal, esce fuori il nome di Friedrich von Hayek, c’è chi pensa: ma non era morto? Parlarne evocava la vaga memoria di dibattiti degli anni Trenta. Aveva battibeccato con Keynes, salvo rinunciare a prendere per le corna il toro della Teoria generale. Keynes cambiava idea rapidamente, non aveva senso inseguirlo: così dirà poi. Hayek all’epoca insegnava alla LSE e sembrava destinato a esercitare un’influenza potente sugli economisti della nuova leva. La Teoria generale lo derubò di buona parte dei suoi sodali, a cominciare da quel John Hicks che lo precedette a Stoccolma di un paio d’anni. Hayek era stato co-protagonista di una delle grandi battaglie intellettuali del secolo. Non tanto quella, abortita, con Keynes, ma il cosiddetto dibattito sul calcolo economico in un’economia pianificata. Erano passati un paio d’anni dalla presa del Palazzo d’inverno quando il suo mentore, Ludwig von Mises, scrisse un articolo sconvolgente. Il socialismo non era più un’idea, era uno stato. Dopo tre settimane in Russia, un giornalista, Lincoln Steffens, aveva scolpito nel marmo delle citazioni memorabili queste parole: “Ho visto il futuro, e funziona”.

Per Mises, non poteva funzionare. L’abolizione della proprietà privata dei fattori produttivi impediva quell’asta perpetua che consente alla produzione di avvenire secondo criteri economici: cioè di utilizzare la risorsa più opportuna, nel modo più efficiente. Alcuni economisti socialisti reagirono. Nell’atrio del ministero della produzione, disse Oskar Lange, un giorno troneggerà il busto del professor Mises. Alla base, un’iscrizione: a testimonianza dell’imperitura gratitudine del ministro. C’era un problema, aveva ragione Mises, andava solo risolto. Lange e altri ci provarono, abbozzando l’idea di un “socialismo di mercato”. Che significa: socializziamo sì i mezzi di produzione ma per decidere come impiegarli ci inventeremo meccanismi che riproducano l’economia di mercato. Il meglio dei due mondi: l’efficienza dell’economia di concorrenza senza le diseguaglianze che produce. Hayek li smonta. Perché costruire un marchingegno complicato per replicare qualcosa che gli attori economici fanno da soli, senza pensarci nemmeno, se lasciati a se stessi? Imprenditori e consumatori rivedono e correggono le proprie valutazioni ogni giorno. I funzionari di un ministero possono farlo solo convocando una riunione. Dal dibattito, a Hayek verrà l’idea che il mercato è sì divisione del lavoro, ma soprattutto divisione della conoscenza, forse meglio al plurale: delle conoscenze. Alcune di queste gli individui le mettono in campo senza accorgersi nemmeno. Ci sono le conoscenze di luogo e di tempo, che riguardano l’assetto di un certo mercato: il ristoratore sa da quale bancarella è meglio comprare le triglie e a chi rivolgersi per un trancio di tonno, il barista impara che d’inverno i suoi clienti preferiscono il cornetto ai frutti di bosco e d’estate quello all’albicocca. Ma c’è anche il know how, il saper fare, appreso durante il continuo apprendistato della pratica lavorativa e non in un corso di studi, e ci sono conoscenze messe in moto attraverso automatismi e difficili da “formalizzare”.

Quando il dibattito si chiude, mentre le ombre della guerra si stagliano all’orizzonte, i più non sono molto convinti che l’argomento migliore fosse quello di Mises e Hayek. Oltre all’Unione sovietica anche la Germania nazista è un paese fortemente centralizzato, nel quale le decisioni dei privati sono subordinate alla direzione del settore pubblico. In forme più sfumate e con tutte le difficoltà di avere a che fare coi petulanti reazionari della Corte suprema, Franklin Delano Roosevelt cerca di fare qualcosa di simile. Idem l’Inghilterra. Hayek ci era arrivato pensando di essere, finalmente, nel suo paese d’elezione, la terra del liberalismo. Le tradizioni nascono e muoiono. Il laissez-faire ci ha fatto ricchi, ammette Keynes nel 1926, ma è anacronistico. Troppo grandi sono le sfide che ci attendono per fare assegnamento sulla libertà di imprenditori e consumatori. Se sfogliate con attenzione il giornale di oggi, ci troverete grosso modo la stessa idea. Nel 1974 come nel 2024, non c’è praticamente nessuno, nelle università come nei ministeri, che pensi che nell’imperfezione delle cose umane la libertà di mercato è un’idea più prudente, meno rischiosa, che far decidere a una commissione come devono esser fatte le nostre automobili. Nessuno o quasi che accetti che l’innovazione non è un treno di cui si conoscano orario e binario. Per carità, gli elettori capiscono poco, i consumatori ancor meno. Però ci sono i tecnici. I tecnici il nostro futuro l’hanno già immaginato.

Poi arriva il Nobel a Hayek. E’ la Tolosa dell’economia keynesiana. Gunnar Myrdal non rifiuta l’assegno ma dice che meglio sarebbe abolire il premio, che darlo a certi reazionari. Alla cerimonia di premiazione, il 10 dicembre 1974, Myrdal non accenna nemmeno un sorriso. Pure l’austriaco spiega che, se glielo avessero chiesto, avrebbe suggerito di non inventarselo, un Nobel per gli economisti, ma perché dà troppa autorevolezza alle parole di chi se ne adorna. Il mondo lo guarderà come un oracolo. Spiegami, o vate, la direzione della storia. La motivazione del Premio richiama gli studi di Hayek sul ciclo economico. Hayek è “austriaco” di nascita e perché s’inserisce in una scuola, quella che ha inizio con Carl Menger, che insiste sul tempo nella produzione di beni e servizi. Sembra un paradosso ma un’economia a divisione del lavoro complessa “allunga” i tempi della produzione. Un bene di consumo è l’esito di una serie di passaggi intermedi, di risorse che vengono messe in campo per produrre beni che serviranno a realizzarne altri. Il processo si giustifica perché la produttività aumenta, ma richiede tempo. Tutti i beni capitali rappresentano un investimento di grado “più alto”, sulla scala della produzione, in vista però sempre della realizzazione di beni di consumo.

Per Hayek, le depressioni segnalano un problema nell’allocazione delle risorse, uno scollamento fra produzione e domanda. Gli esseri umani tendono a preferire un bene presente, certo, a uno futuro, aleatorio. La loro disponibilità a fare investimenti è legata al tasso di cambio, per così dire, fra uovo e gallina. La crescita dell’offerta di moneta sfasa i segnali di mercato: i fattori produttivi non vanno dove dovrebbero, ma si concentrano negli stadi della produzione più lontani dal momento del consumo. Si scommette su un aumento della domanda che poi non arriva. In quella situazione, scoppia la crisi. L’alternarsi di boom e bust non è ascrivibile all’economia di mercato in sé e per sé quanto al fatto che i prezzi, che sono le boe sonore che consentono ai naviganti del mercato di trovare la rotta, smettono di rappresentare fedelmente le preferenze degli individui. Per intenderci, la disponibilità di finanziamenti a tasso estremamente conveniente porta a fare investimenti di cui non c’è effettivo bisogno, ad acquisire beni capitali oggi che portano a una produzione eccessiva rispetto alla domanda di beni di consumo domani. Gli studi di Hayek sulla “struttura” della produzione consentono di comprendere che la marea degli eccessi monetari alza prima alcune barche. Non esiste un livello dei prezzi che il banchiere centrale possa governare a piacere. I prezzi riflettono situazioni specifiche e le loro variazioni sono una danza continua, essi si adattano gradualmente ai cambiamenti che avvengono nel mondo e rincari o ribassi di beni e fattori produttivi si condizionano a vicenda.

Nel 1974, questa teoria del ciclo economico è un relitto alla deriva. Poi Robert Lucas (Nobel nel 1995) ne riprenderà alcuni spunti, riportandoli nel mainstream. Oggi studiosi come Claudio Borio e William White, della Banca degli investimenti internazionali, insistono che le crisi finanziarie tendono a essere precedute da boom creditizi. Nella motivazione del Nobel entrano anche altri lavori. Nel dibattito sul calcolo, Hayek aveva insegnato a confrontare i diversi sistemi economici attraverso “lo studio dell’efficienza con cui vengono utilizzate tutte le conoscenze e le informazioni disperse tra gli individui e le imprese”. Nel ricevere il Premio, Hayek esordisce parlando d’attualità, dell’inflazione. Gli economisti hanno la loro parte di colpe, perché hanno abbracciato l’idea di una relazione semplicistica fra occupazione e domanda aggregata. Questo apparato teorico (il keynesismo) è popolare perché permette di sbizzarrirsi coi metodi quantitativi. Fallo giocare coi numeri, e chiunque si sente uno scienziato. A Hayek non interessa il caso particolare ma la tendenza generale: come una patina di finta scientificità strangoli metodo scientifico e capacità di ragionare. I tecnicismi si apprendono più facilmente del modo di pensare che ci porta a capire quali siano i problemi e come affrontarli.

La lezione è densa e, per quanto sia stata preparata in un paio di settimane, è davvero la summa di una vita di studi. Il titolo è: “La pretesa di sapere”. Se non vogliamo fare “più male che bene” quando proviamo a migliorare l’ordine sociale, ammonisce Hayek, dobbiamo comprendere che non abbiamo una conoscenza che ci consente di dominare davvero gli eventi. Il bravo riformatore non è un artigiano che modella la società sulla base di un piano, semmai somiglia a un giardiniere. La società è una pianta, possiamo aiutarla a irrobustirsi, ma cresce da sé. Quante sopracciglia si alzano. Hayek vuole pubblicare il testo sulla rivista della London School of Economics, che lui stesso aveva diretto durante la Seconda guerra mondiale. E’ un gesto accademicamente affettuoso, perlomeno vorrebbe esserlo. Il direttore risponde che serve un’ampia revisione. E con pazienza indica al più anziano collega tutte le cose che non si possono dire, come farebbe con un autore alle prime armi. Hayek avrebbe dovuto saperlo. La coerenza e la spregiudicatezza intellettuale hanno il loro costo, che il Premio Nobel può compensare solo in parte.

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