La Prima della grande sicurezza

Cronaca minuto per minuto di una serata eterna, ma non a causa dello spettacolo, bensì della cena di durata gattopardesca

7 dicembre 2024, per i milanesi e una discreta parte del mondo che vi assiste in diretta sulle reti Rai il giorno della “Prima della Scala”. Ore 17 circa, manca un’ora all’ingresso di Riccardo Chailly nella buca dell’orchestra, per l’inno di Mameli e le trombe dell’ouverture della “Forza del destino”. All’ingresso degli artisti di via Filodrammatici, i direttori della comunicazione del teatro e della Rai di Milano, Paolo Besana e Carlo Casoli, in smoking, aspettano sotto le arcate l’arrivo dell’amministratore delegato di viale Mazzini, Giampaolo Rossi, fra i pochissimi (c’è anche Natalia Aspesi, e giustamente), in possesso del pass per superare in auto gli sbarramenti, che si estendono a tutto l’isolato. Sotto la pioggia battente, i controlli capillari risultano particolarmente ostici e infatti ogni qualvolta si apra la porta, si viene investiti dalle urla di uno dei responsabili dell’orchestra, inferocito dallo zelo di due giovani carabinieri nei confronti dei professori che devono correre negli spogliatoi, infilare il frac o l’abito da sera, si presume riscaldare un po’ se stessi e gli strumenti, in vista delle tre ore e quaranta di musica che sono parecchie. I due, immobili, subiscono a testa alta i rimbrotti, forse immaginano che in quelle custodie siano nascoste delle mitragliette come nei film su Al Capone.

Il corteo di protesta dei Pro Pal sta per arrivare in piazza della Scala e non a caso, proprio a cinquanta metri dall’ingresso laterale del teatro, in via Santa Margherita, pochi minuti dopo un gruppetto di manifestanti, presumibilmente lo stesso che la mattina ha messo nel mirino la premier Giorgia Meloni e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ricoprendone le immagini di letame (“E’ la storia della Scala e della Prima. Inutile stupirsi, cerchiamo di capirne le ragioni”, ha tentato di minimizzare il sindaco Beppe Sala), tenterà di sfondare le transenne. La tensione dura poco, meno di un minuto per noi che la osserviamo già dentro il teatro, e non si tratta nemmeno di un corteo di vaste proporzioni.

Considerata l’assenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e della premier Giorgia Meloni, a Parigi per la cerimonia di riapertura di Notre Dame restaurata dopo l’incendio devastante del 2019, tutto quello spiegamento di forze di pare eccessivo, dunque è immaginabile che il Prefetto di Milano abbia voluto proteggere qualcun altro, e quel qualcuno non può che essere la senatrice Liliana Segre che si è lasciata convincere per il secondo anno consecutivo a rappresentare, ancor più che le istituzioni, lo spirito etico e morale della nazione.

L’affaccio dal palco reale o centrale che dir si voglia, dopotutto avremmo votato per l’abolizione della monarchia ottant’anni fa, è esattamente quello che abbiamo anticipato il 5 dicembre sul “Foglio” e che è stato suggerito, con molto acume va riconosciuto, da Palazzo Madama: la senatrice Segre al centro, la moglie del presidente del Senato Ignazio La Russa, Laura De Cicco, alla sua destra, Chiara Bazoli alla sua sinistra, accanto al sindaco di Milano, Beppe Sala, suo compagno ormai da molti anni, ospiti poche settimane fa di una cena con tutti i direttori dei musei milanesi. Alle loro spalle, il ministro della cultura Alessandro Giuli con la moglie Valeria Falcioni, la vicepresidente della Camera Anna Ascani che no, nonostante tutti i tentativi non è riuscita ad arrivare alla prima fila, il presidente della Regione Lombardia Attilio Sala e il Prefetto Claudio Sgaraglia. Nel retropalco, Placido Domingo in versione cronista di lusso, con telecamere al seguito, molto affettuoso e festoso con tutti, gira un documentario sul 7 dicembre per la Scala, una coproduzione italo-francese.

Nel foyer, poche mise davvero memorabili, tira aria di crisi e lo sfoggio eccessivo è di cattivo gusto; in sala molti habitué nell’industria e nel sistema bancario, Paolo Baratta che conosce l’opera specifica e in genere la lirica meglio di una buona metà dei critici ma sicuramente più del tizio alla nostra sinistra in calzini arrotolati e scarpe da barca che dorme per tutto il tempo, molto festeggiata la coppia Nicoletta Manni-Timofej Andrijashenko, cortese ma defilato Roberto Bolle che sempre spera di prendere il posto di Manuel Legris alla guida del balletto, Maurizio Lupi in abito da sera e chewing gum. Diana Bracco chiede di essere presentata a Pierfrancesco Favino che, olimpico, concentrato, sopporta per tutta l’esecuzione la maleducazione del suo vicino col cellulare sempre acceso nonostante le preghiere delle maschere. Suggeriamo la requisizione, come a certi concerti rock. Al termine della sublime aria della “Vergine degli angeli” che chiude il secondo atto, ci dirà di intendersi troppo poco di opera per poter esprimere un giudizio e che no, aver interpretato Ferruccio Mezzadri, il celebre maggiordomo-factotum-amico di Maria Callas nel (non riuscitissimo, e per i melomani una vera disgrazia) biopic “Maria” di Pablo Larrain non gli dà comunque il diritto di parlare.

Passa con la sufficienza la regia di Leo Muscato, molto appoggiata sulla scenografia “effetto piano sequenza” di Federica Parolini e sui costumi sublimi di Silvia Aymonino (per approfondire, “Foglio della Moda” del 5 dicembre), i buu sono tutti riservati a Anna Netrebko, ma certo non per l’interpretazione, piena e pastosa e potente, bensì, ancora una volta, per il paese di nascita (è russa naturalizzata austriaca) e per non aver mai preso le distanze da Vladimir Putin. Ancora una volta: bisogna distinguere la persona dalla sua arte? Il sovrintendente Dominique Meyer trova le proteste ingiuste, anche per un motivo, come dire, tecnico: “Non c’è una Netrebko in ogni generazione e se abbiamo la fortuna di averla qui dobbiamo applaudirla”, giudizio che, pur non espresso, chiude anche un po’ le polemiche pretestuose, antecedenti all’inaugurazione, sull’abbandono di Jonas Kaufmann, che a cartellone avrebbe dovuto interpretare don Alvaro: è bastato ascoltarlo qualche giorno fa nel concerto del centenario pucciniano per sapere che non sarebbe più riuscito a sostenere una parte così complessa. Duole dirlo, ma la voce non ha più la forza e lo smalto d’acciaio di un tempo.

Dopo la cena, in attesa di un taxi che non arrivava mai nemmeno alle 2 di notte, circa, ci siamo trovati sotto l’androne della Società del Giardino con Brian Jadge che l’ha sostituito, felicitandoci molto. E qui, arriviamo alla nota davvero dolente della serata, e ci spiace di dolerci per la seconda volta, ma il cerimoniale non è uno scherzo, e una cena a tarda serata non può durare quasi come l’opera a cui si è assistito. Percorso il tragitto dalla Scala a via san Paolo alle 11 circa a piedi, sotto la pioggia che non ha mai accennato a smettere, i cinquecento ospiti hanno trovato una fila chilometrica al guardaroba, seguita da una cena pensata forse per un altro momento e altri appetiti: non vorremmo dare la mera conta dei tempi, non ci pare elegante, ma abbiamo visto con i nostri occhi alcuni ospiti rubare il bocconcino di vitello (il diminutivo è d’obbligo) dal piatto del vicino che nel frattempo, stremato dalla cena di durata gattopardesca, con le signore che non si accasciavano sui divani esalando “maria, maria” come le aristocratiche siciliane, in mancanza dei divani e dei necessari quarti di nobiltà, si era alzato da tavola per dirigersi verso casa e farsi “due spaghetti”.

Quasi nessuno è arrivato al dolce, servito oltre l’una di notte, si presume, e per una cena che voleva testimoniare i soliti principi di “sostenibilità”, ci pare uno spreco importante. Suggerimento non richiesto ai vertici futuri del Piermarini e principalmente al nuovo sovrintendente Fortunato Ortombina: visto che i biglietti per lo spettacolo, favolosamente venduti a oltre tremila euro, sostengono molte attività benefiche nella città più generosa d’Italia, fate lo stesso con i tavoli. Vendeteli agli sponsor. E organizzate, magari, con uno chef meno stellato di Andrea Aprea, e più consapevole di cosa comporti servire in tempi accettabili un numero così elevato di commensali. Convivio, per esempio, ci riesce benissimo, c’è riuscito Pirelli alla National History Museum di Londra, e c’è anche stato anche tempo per le danze.

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