L’attore è un’emblema dell’ironia napoletana leggera ma non frivola. “C’è un frastornante luccichìo che ci distrae dall’idea della morte e rimuove i lutti. Se smarriamo la sacralità dei defunti, smarriamo quella della vita”
A quarant’anni esatti da ‘Così parlò Bellavista’, chi lo incontra lo saluta ancora con gli scambi di battute che lui, vice sostituto portiere Salvatore, rese memorabili nel film di Luciano De Crescenzo. Dopo oltre mezzo secolo di cabaret, cinema e teatro, Benedetto Casillo è un’emblema dell’ironia napoletana leggera ma non frivola. Sorprende perciò chi non lo conosce che stia dedicando una serie di incontri al tema della morte. O, come recita il titolo, ‘L’arte in soccorso dell’uomo. La vita all’ombra della morte’: letture e dialoghi su quattro testi di Luigi Pirandello, Raffaele Viviani, Totò, Enzo Moscato. Li ha rappresentati al Real Sito di Carditello, all’Archivio di Stato e all’Unione Industriali di Napoli e li porterà il 17 dicembre a Roma nella chiesa di Santa Maria del Carmine alle Tre Cannelle.
Per mitigare la sorpresa, ricordiamo l’epoca in cui anche un autore di commedie come Gaetano Di Maio, terminata la stesura di un copione, lo lasciava tre giorni sotto le immagini di qualche santo e dei parenti defunti. Il dialogo con l’Oltre apparteneva alla normalità.
Come le è venuta l’idea?
Dal contrasto tra i ricordi giovanili e lo sguardo sul presente. La morte è l’unica certezza della vita, ma è un metro che non s’usa quasi più. C’è un frastornante luccichìo che ci distrae dall’idea e rimuove i lutti. Quando ero ragazzo e passava un carro col defunto, i negozianti s’affrettavano a calare la saracinesca, i passanti salutavano col segno della croce o un cenno della mano. Adesso invece ho letto del sindaco di una città, per giunta meridionale, che ha vietato i funerali a piedi. Questo spiega il degrado in cui viviamo. Sono cresciuto al tempo in cui se c’era un morto nel palazzo i condomini abbassavano la voce e il volume della radio. Si coltivava la memoria con le immagini dei santi, le fotografie dei parenti e amici cari defunti in camera da letto.
Ci sono nella sua?
Certamente. Incontrare i loro occhi mi mantiene in contatto con la spiritualità. Non si tratta di nostalgia, non è questione sentimentale. È una risorsa di forze per la quotidianità come la benzina per il motore. Se smarriamo la sacralità dei defunti, smarriamo quella della vita. Ora è un problema persino morire nel fine settimana, è una seccatura per tutti specialmente se c’è una partita del Napoli. Ciascuno vuol disfarsi del pensiero al più presto, anche la cremazione è un modo per liberarsene più facilmente. Il rito dell’esumazione è duro, persino macabro se non si coglie il senso di una elevazione, di un’ultima volta, come lo percepii io con mia madre.
È credente?
Sono cresciuto di fronte a un convento di cappuccini. Si giocava a calcio, c’era una compagnia teatrale, facevamo a gara a chi ascoltava più messe, ma verso i vent’anni me n’allontanai e solo dopo ho sviluppato un rapporto maturo, non bigotto con la spiritualità, ho riletto i vangeli. Dio esiste? Non lo so, ma ho fatto la famosa scommessa e mi sento come quegli atleti che vogliono vincere una gara e s’allenano per riuscirci: cadute, strappi muscolari, ma ti rialzi e prosegui.
Quali testi ha scelto per la rappresentazione?
‘L’uomo dal fiore in bocca’ di Pirandello, che riproporrò in uno spettacolo al Teatro San Ferdinando a maggio; la poesia ‘Fravecature’ di Raffaele Viviani, che trattava la morte sul lavoro un secolo fa e sembra scritta adesso; ‘’A livella’ di Totò, che dipinge con semplicità il contrasto fra l’opulenza e la miseria di cui ti rendi conto quando osservi l’abbandono di alcune tombe; infine un testo di Enzo Moscato sulle deportazioni naziste.
Lei è devoto alla Madonna di Piedigrotta, evocativa di una storica festa canora ma che fu veneratissima per il prodigioso salvataggio dei naufraghi sulla spiaggia di Mergellina, dove perse uno scarpino…
La festa, dalle radici pagane, era uno straordinario concorso di fede che coinvolgeva a settembre migliaia di persone. Da quarantun anni m’impegno a preservarne la memoria e anche i risvolti minori. C’erano le parate militari, quelle dei carri allegorici, ma pure il concorso dei vestitini di carta per bambini cui partecipavano ricchi e poveri perché era una materia alla portata di tutti, colorata e fragile come la speranza. La grande festa s’è perduta ma organizziamo ogni anno una serenata alla Madonna e anche se l’ultima volta c’erano pochissime persone la viviamo come una forma di rivoluzione contro i tempi. L’anno prossimo ci sarà l’uscita solenne della statua, che avviene una volta ogni cinquant’anni. Sarà il 14 settembre, con processione a mare, messa a Santa Lucia, corteo di barche con luminarie, fuochi e nuovamente il concorso dei vestitini.
Com’è Napoli adesso?
Sul lungomare non sento odore di salsedine ma di frittura. Bisogna accogliere il turismo senza derogare all’identità perché il denaro non è tutto. Ciascuno deve sentirsi responsabile, anche chi vende i pastori a San Gregorio Armeno non deve cedere ai gadget né giustificarsi perché altrove è capitato. Ci vuole un minimo di integralismo.
Cosa porterebbe su un’isola deserta?
Un pastore antico, probabilmente quello “della meraviglia” perché meravigliarsi è un gusto che si va perdendo. Un ritratto di zia Maria che non si sposò per crescere me e mia sorella, come in tante famiglie napoletane dove una donna restava zitella per dedicarsi ai nipoti. Poi le poesie di Russo, Viviani e un testo di Moscato. Una figurina di Totò. E De Crescenzo nel cuore, perché rappresentò l’incontro fra vecchia e nuova Napoli. La gente cita ancora i pensieri dei suoi film. Che furono pensieri, e non battute.