L’abito della rivalsa è fatto di seta. E di identità nascoste

Da Tom Ripley al libro di Bruno Mazzoni, fino a “Il camaleonte” ispirato a William Douglas Street Jr. e “Inventing Anna”. L’arte del trasformismo in mille storie e protagonisti di vite altrui

Quando il popolo acclama Simon Boccanegra nuovo Doge di Genova, nel Prologo del capolavoro di Giuseppe Verdi che ha inaugurato da poco la stagione dell’Opera di Roma, il corsaro è del tutto disinteressato al prestigio, alla ricchezza e al potere che quell’improvvisa trasformazione sociale comportano. “Eco d’inferno è questo!…”, “Via fantasmi!” risponde. Il suo pensiero è tutto per la morte dell’amata Maria, appena scoperta. Del resto, il trasformismo è un’arte. Anzi, un talento, per dirla con Patricia Highsmith, che alla capacità di acquisire un’altra identità ha dedicato ben cinque romanzi, tutti con lo stesso protagonista: Tom Ripley.

Quel Mr. Ripley reso celebre non solo dal primo e più noto dei libri della scrittrice americana, “Il talento di Mr. Ripley”, ma anche dai tanti film che ha ispirato. Da “Delitto in pieno sole di René Clément, con un fascinosissimo Alain Delon, a “L’amico americano” di Wim Wenders, passando per il glamour hollywoodiano dell’omonimo film di Anthony Minghella che, se aggiunge il luccichio di star come Jude Law, Matt Damon e Gwyneth Paltrow, trascura gli aspetti più plumbei della vicenda, fino al “Gioco di Ripley” di Lilliana Cavani, con un inquietante John Malkovich protagonista, e alla recentissima serie Netflix “Ripley” di Steven Zaillian, che si autocompiace un po’ troppo del bianco e nero e della raffinata fotografia.

Ma chi è Tom Ripley? In realtà un uomo privo di talenti se non quello di una straordinaria capacità di trasformarsi. Ripley non si limita però a imitare la voce o gli atteggiamenti di qualcun altro, ma ne incarna la sostanza individuale, con tutte le caratteristiche sociali annesse. Questa abilità gli consente non solo di campare – è costantemente sull’orlo del lastrico – ma anche di infiltrarsi in ambienti a lui preclusi. La simulazione incessante diventa per lui l’unica possibilità di sopravvivenza. Ripley imita codici che, se da un lato non gli appartengono, dall’altro ha osservato attentamente, impossessandosene e riproducendoli con una dovizia di dettagli tale da farli sembrare propri. Perché in fondo la sua ambizione è quella di cambiare i suoi natali, di far sparire il passato acquisendo uno status anagrafico diverso. E forse, alla radice della sua violenza – perché Ripley è un assassino – ci sono proprio l’invidia, la vergogna e la rabbia generate dall’esclusione sociale. Ma se Tom Ripley è nato in America e sta per compiere settant’anni, nella letteratura europea contemporanea è da poco arrivato un nuovo splendido trasformista: Theodoros, il protagonista dell’omonimo romanzo del romeno Mircea Cărtărescu, sempre in lizza per il Nobel.

Da poco pubblicato in Italia dal Saggiatore nella traduzione di Bruno Mazzoni, il libro ha come protagonista un personaggio storico in parte ricostruito e in parte inventato. Figlio di una venditrice greca di rimedi contro i vermi intestinali e di un artigiano di colbacchi valacco, riesce a trasformarsi in un essere che nessuno si sarebbe mai immaginato. Perché è un essere fatto di arroganza e desiderio, un mostro di volontà e di fede che imparerà a sue spese come la fede venga da Dio, ma la volontà abbia piuttosto a che fare con il diavolo. Nato nel 1918 in un nebbioso e innevato villaggio della Valacchia, concepito in una stalla e battezzato in acque gelide con il nome di Tudor, con la prima parola le sue intenzioni: dirà “voglio”.

E sarà proprio la sua prodigiosa determinazione a trasformarlo lungo tre millenni in Theodoros, il pirata terrore del Mar Egeo, e successivamente in Tewodros II, Imperatore d’Etiopia, successore di Menelik, vestito con una camicia di raso così bianca da sembrare d’oro, orecchini con crisoliti, fili dorati per legare i baffi, un croce di cristallo portata su una catena fatta con maglie di pelle di giraffa essiccata, un anello imperiale d’ametista e un ampio mantello; ma dentro di sé resterà il servo della casa dei boiari che quando sogna, o in punto di morte, parla romeno. Il suo tratto distintivo resterà la violenza: è una creatura del sangue, che ha mangiato e bevuto.

Per questo la sua trasformazione assume i tratti di una discesa agli inferi, suggellata in extremis da un segno della croce insanguinato e da un colpo fatale che si autoinfligge con una pistola, dono della regina Vittoria. Certo Tudor/Theodoros/Tewodros, a ben guardarlo, non mostra gli elementi caratteristici degli abitanti dell’Etiopia: il suo è un rarissimo caso di trasformazione da europeo ad africano finalizzata al potere e al successo. È una forma di racial passing, diventato quasi un genere cinematografico grazie a pellicole che trattano temi quali la violazione di un confine; la finzione, la creazione o il rifiuto di un’identità; e le ansie sociali connesse. Parliamo di trasformazioni che segnano una sorta di trasgressione ontologica, che non hanno solo a che fare con ciò che è visibile o invisibile, ma anche con l’identità stessa, dissimulata, disconosciuta o sommersa.

Questo intreccio narrativo spesso si accompagna a toni moraleggianti e un po’ melodrammatici, che enfatizzano la sofferenza di chi finge di essere bianco, di chi cerca rifugio nella “whiteness” per accedere a opportunità prima negate. Qualche eccezione è riuscita tuttavia a complicare il genere. “Il camaleonte”, scritto, diretto e interpretato da Wendell B. Harris Jr. nel 1989, è ispirato alla vita di William Douglas Street Jr., ribattezzato “l’impersonatore”: afroamericano di umili origini, venne arrestato varie volte per aver impersonato donne, giornalisti, avvocati, atleti professionisti, medici. Street si presentava con curriculum e con titoli contraffatti: lavorò persino in ospedale, spacciandosi per chirurgo di consumata esperienza e portando a termine trentasei isterectomie, prima di essere scoperto. L’aspetto interessante è che Street non puntava al denaro: non è riuscito a far fortuna con i suoi inganni. E dal punto di vista dell’apparenza fisica non ha mai cercato di passare per bianco, come spesso accade ai protagonisti delle storie di racial passing. Attraverso l’atteggiamento, l’ambizione, il desiderio di non essere più invisibile o “razzializzato”, Street si è semplicemente impossessato di stereotipi di successo tipici della classe media bianca americana, smascherando costrutti sociali e culturali e problematizzando il concetto stesso di identità.

A un altro eclatante caso di cronaca è ispirata invece la serie Netflix “Inventing Anna”. Qui, la russa Anna Sorokin, figlia di un camionista e della gestrice di un minimarket, si finge un’ereditiera tedesca, assumendo il nome di Anna Delvey. Sofisticata, di buon gusto e opinioni raffinate, classista quanto basta, Delvey raggira decine di persone dell’alta società di New York, inanellando una serie impressionante di successi mondani, dall’accesso ai club più esclusivi al prestito di enormi somme di denaro. Ma il vero successo, per l’autentica Anna Sorokin, è stata probabilmente la realizzazione di una serie tv tratta dalla sua storia e firmata da una star della tv americana come Shonda Rhimes. Senza contare i 320.000 dollari di diritti che l’adattamento le ha fruttato mentre era ancora in prigione a scontare la sua pena.

Paolo Cairoli, direttore della rivista di attualità culturale “Calibano” (effequ editore)

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