Vita vera ed etichette beffarde

Ritorna in libreria l’esordio letterario della psicologa e scrittrice Alaine Polcz. Un punto di vista ilare e crudo sugli anni del regime comunista in Transilvania. Un racconto talmente attuale da suscitare il nervosismo dell’ambasciata russa in Italia

La casa editrice Anfora, che svolge un lavoro importante sulla letteratura ungherese, ha pubblicato di recente, nella traduzione di Antonio D’Auria, “Donna sul fronte” di Alaine Polcz. Nata nel 1922 e morta nel 2007, Polcz ha lavorato a lungo come psicologa, e nel suo paese ha cambiato il modo di prendersi cura dei malati terminali. Il suo esordio di scrittrice, che coincide con questa narrazione autobiografica, è arrivato solo nel 1991: cioè quando, col crollo del regime comunista, crollava la censura su molti episodi in cui erano coinvolti i sovietici. L’autrice di “Donna sul fronte” ricorda infatti gli stupri senza numero subìti a vent’anni, durante la Seconda guerra mondiale, da parte dei soldati dell’Armata rossa.

“E’ rimasta in me la seguente immagine:”, scrive a un certo punto, “otto o dieci soldati russi mi circondano accovacciati, ora uno si sdraia sopra di me, ora un altro. (…) Verso l’alba capii come facesse a rompersi la spina dorsale. Facevano quanto segue: piegavano le gambe della donna sulle sue spalle e vi si buttavano sopra in ginocchio. Se qualcuno lo faceva con troppa forza, la spina dorsale della donna si spezzava”. Ma se disumane sono le violenze, Polcz non disumanizza chi le compie. Nella loro imprevedibilità – opposta al ferreo ordine tedesco – i russi sono anzi spesso gentili e anche buffi. Tutto “Donna sul fronte” è del resto un libro ilare quanto crudo: la protagonista ha la vitalità di un animaletto felice, in cui la fisiologia prevale sulla Storia. Il sangue della morte convive qui con il sangue del ciclo e con i bisogni fisici, con i giochi misteriosamente affettuosi dei cani e con i dettagli quasi tattili di cibi e arredi.

Questo libro sa descrivere le reazioni fisiche senza nulla concedere alla retorica sul corpo. Si veda ad esempio, nelle prime pagine, la scena dell’amplesso coniugale: perché “Donna sul fronte” si apre sul matrimonio della narratrice con un uomo impeccabilmente coraggioso nelle urgenze pubbliche, ma infantilmente vile nelle relazioni intime – e se lei sopporta con tanta forza l’orrore bellico dipende anche dal fatto che tutta la sua sofferenza si concentra intanto sull’impossibilità di farlo innamorare. Siamo nella Transilvania delle minoranze ungheresi umiliate dopo il trattato del Trianon, e riportate a un’effimera vittoria dalla guerra nazista. Intorno, a poco a poco, si disegna una mescolanza di confini, etnie e religioni praticamente ignota al lettore occidentale: rumeni e croati, riformati e cattolici, ebrei minacciati dall’antisemitismo esploso con la decomposizione dell’impero austroungarico… E’ su questo fronte, tra ospedali da campo e aristocratici castelli, che Polcz ha imparato a parlare della morte con naturalezza, elaborando la sua prassi futura di psicologa.

E con intelligenza di psicologa ha scelto un taglio da racconto orale, fingendo il set di un dialogo intimo o intervista pubblica che le permette di andare avanti e indietro nella biografia con disinvoltura, ossia di sovrapporre alle memorie del ’44 quelle di altre date fatidiche: il ’56, l’89… Ultima nota. Il giugno scorso, durante una presentazione del romanzo alla Libreria Centofiori di Milano, un rappresentante dell’ambasciata russa ha letto un lungo comunicato in cui si diceva che se si continuano a promuovere libri del genere finirà male. Quasi più minaccioso del contenuto è il fatto che l’ambasciata abbia trovato il tempo per inviare un rappresentante a un evento letterario “di nicchia”. Mónika Szilágyi, direttrice di Anfora, ha denunciato l’accaduto. Ma il ceto culturale italiano, i cui membri tendono a mobilitarsi solo per cause che sanno condivise dai colleghi, fiutando un tema divisivo l’ha lasciata pressoché sola. Anche queste sono cronache da archiviare sotto un’etichetta beffarda del tipo “più libri più liberi”.

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