Notre-Dame, un’impresa impossibile vista da vicino

Passa tutto in secondo piano di fronte al miracolo della cattedrale di Parigi che riapre al pubblico e all’arte magica di rifare le cose. Fede e bellezza hanno combinato un matrimonio tecnico e d’amore prodigioso

Banalmente io c’ero, quando bruciò Notre-Dame, come un overtourist qualsiasi, in un aprile per niente crudele, come può capitare a Parigi, di cinque anni fa; ero su un marciapiede della Rue Monge, in un bistrot dalle parti di casa mia, con un libro, e vidi la nuvola di fumo, andai al ponte dell’Arcivescovado, fotografai, cadde la flèche, riferii, scrissi qualche riga per il giornale, tutto lì. Nei giorni successivi, a notte, da Place Maubert vedevo infuocato il rosone che guarda la riva sinistra mentre cielo e fiume continuavano a gemere per la perdita. Il sagrato era per me un luogo altrettanto sacro della navata centrale, da cui si era mossa a Pasqua dell’anno precedente la processione verso il fuoco attizzato nel venerdì santo, e la cattedrale voleva dire più o meno tutto della vita in città, tra dove abitavo e il mercato dei fiori, passando per l’Hotel Dieu, con i duecento anni per costruirla e gli ornamenti di Viollet-le-Duc, le sue brutture apostolari e devozionali, il suo incanto di fascio simbolico dalla Fronda alla Rivoluzione che l’aveva negata, peggio che incendiata. Mai avrei pensato che in cinque anni davvero, ma proprio cinque, come promesso dal presidente dei ricchi, Emmanuel Macron, l’avrebbero effettivamente ricostruita e restaurata.

Ora Michael Kimmelman, esperto di architettura del New York Times, dice che l’opera dei duemila restauratori, che hanno rifatto il tetto di quercia e la flèche, riordinato e ricostruito e sistemato la pietra sopravvissuta, e le vetrate e il resto e la facciata, è stata un miracolo di fede e devozione. Nel paese della laïcité e dell’ateismo e della trascendenza rivoluzionaria dell’Essere Supremo, in quella Francia che è la figlia maggiore della Chiesa, lo riconosca o no, si è prodotto, secondo un critico dell’architettura attivo a Manhattan, qualcosa che sospende le leggi della natura politica, amministrativa, e dell’arte di rifare le cose, com’erano e dov’erano, appunto un miracolo di dedizione, fedeltà, attaccamento. Bisogna dire che le elezioni anticipate, il frontismo e il lepenismo, l’insufficienza del riformismo di centro, l’evanescenza di socialisti e gollisti, l’impopolarità presidenziale, il negoziato per rimpiazzare Barnier, le aperture del Ps, le bizze di Mélenchon, la sofferenza del bilancio pubblico dopo la censura, i rischi di sistema di un paese centrale della storia d’Europa, tutto passa in secondo piano di fronte al miracolo di Notre-Dame. Cinque anni, un soffio.

Un numero da piano quinquennale, dunque ingannatorio. Un’impresa impossibile tra il Covid e le Olimpiadi e le grandi crisi politiche, eppure fede e bellezza hanno combinato un matrimonio tecnico e d’amore prodigioso di cui Francia e mondo, per una volta all’unisono, vanno fieri nel giorno fausto dell’inaugurazione senza Papa. Chissà i tigli del piccolo parco intitolato a Giovanni XXIII, all’ombra del gotico, che fine hanno fatto, come li avranno potati e pettinati (da allora non sono più tornato, per una allergia superstiziosa a una città senza cattedrale). Le querce però il loro dovere di ricostruzione del tetto, tatuaggi compresi, lo hanno svolto nel delirio di una carpenteria moderna e medievale. Si potrà tornare a sostare sotto Carlo Magno a cavallo, e che cavallo, con i suoi due alabardieri, e giracchiare per vedere i dodici apostoli di una delle tante ricostruzioni, le statue mozzate dai giacobini e rifatte nella Restaurazione, i serpenti e i draghi e gli orchi, e ammirare, magari da Rue du Fouarre, il Vico dantesco degli Strami nei pressi di Saint-Julien-le-Pauvre, quella prefettura di Dio che sta proprio davanti alla questura di Parigi, testimone politica delle sue convulsioni eterne.

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  • Giuliano Ferrara
    Fondatore
  • “Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

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