L’edizione 2024 ha saputo farsi apprezzare per vari motivi, rinnovando un formato che dava segni di stanchezza e che ha così ritrovato un senso e una posizione nello scenario dell’intrattenimento musicale della nostra tv
Atto finale per X-Factor 2024, un’edizione che ha saputo farsi apprezzare per vari motivi, rivitalizzando un formato che dava segni di stanchezza e che ha così ritrovato un senso e una posizione nello scenario dell’intrattenimento musicale della nostra tv. La questione, spesso riproposta, è se questo valore si mantiene tale anche parlando di musica italiana tout court, con relative polemiche e cenni di scetticismo sulla modestia dei risultati del programma, inteso come factory di nuovi talenti: ma forse è un eccesso di zelo critico, no? X-Factor è e resta televisione, dà fondo alla materia finché le procura risultati, poi ciascuno per sé e si passa oltre, anche se va sempre ricordato che i Maneskin, miglior prodotto da esportazione della nostra scena, si sono fatti le ossa proprio qui.
Dicevamo di questa edizione: primo successo, già ampiamente celebrato l’allestimento di una giuria azzeccata, con una chimica che è perfino migliorata via via. Agnelli guru saggio, Achille Lauro chicchissimo interprete della coatteria, Jake La Furia rispettato babbone natale dell’hip hop e l’inattesa Paola Iezzi, conoscitrice maniacale della pop music e capace di resuscitare in un paio d’anni una carriera che era sprofondata nei dintorni dei Jalisse. Poche antipatie tra i quattro moschettieri, una rivalità appena accennata, sobrietà inversamente proporzionale alle toilette e, se proprio vogliamo trovare un difetto, qualche eccesso di buonismo e paternalismo, di “aiutiamo questi ragazzi a crescere”, che nei tempi migliori non era mica lo spirito diffuso tra chi provava a farsi largo, emergendo dall’anonimato.
Tant’è: alla fine non si è sentita la mancanza dei veleni delle edizioni dominate da Morgan e Fedez, che lasciavano un retrogusto trash alle maratone televisive dei “live”, e piuttosto focus spostato sui giovani artisti, tutti titolari di quella prodigiosa maturazione accelerata che trasforma dei debuttanti o quasi, in performer piuttosto pronti, attraverso l’immersione totale negli ingranaggi della produzione musicale del presente. Nella serata finale, finalmente traslocata con audacia dai palasport milanesi a piazza del Plebiscito a Napoli, Sky ha provato a fare le cose in grande: palco sterminato, tour de force dei ballerini, fuochi, fiamme e luci come se non esistesse la bolletta, più lustrini che batteri, costumi un filo cafoni e, nell’insieme, buon gusto quanto basta. Però la piazzona ci ha messo il resto, trattando tutti, conduttori, giudici, ospiti e concorrenti, come graditi protagonisti di una festa nella quale ci si sentiva comodi, perché ogni cosa era chiara e condivisibile: canzoni conosciutissime ed esecuzioni mainstream ma assai dignitose, anche se per i fan più accaniti del format la finale è sempre una delusione, una formalità da sbrigare senza commenti, perché è ai tempi delle home visit e delle prime selezioni che capita di prendersi una cotta per un o una carneade di qualche provincia dell’impero, che ti sembra di conoscere da una vita.
I quattro finalisti erano discreti, ma non straordinari, e poi la provocazione messa in circola da Francamente, l’ultima eliminata delle semifinali, ha colpito un nervo scoperto di X-Factor: un po’ troppo invadente lo strapotere maschile nelle scelte, mica per difendere le quote rosa, ma in relazione ai valori in gara e ai relativi risultati. Forse colpa della demografia dei votanti, forse di come i giudici hanno gestito i concorrenti, con qualche eccesso di stilizzazione dei possibili ruoli femminili nella musica leggera del presente (o cantautrice triste, o riciclo di Dua Lipa). Va comunque sottolineata la sparizione pressoché totale del rap-trap – del resto in tragica carenza di sviluppi – non solo dalle scelte della giuria, ma dalle proposte dei concorrenti. Indizio di un vento che cambia direzione e trova conferma nel proliferare delle band, per lo più ispirate a cose già viste, un po’ di new wave, un po’ di punk, perfino un po’ di rock, Doors e atteggiamenti da rockstar inclusi.
Ancora non s’inventa niente di nuovo, però è sorprendente registrare la notizia che suonare in un gruppo è tornata a essere una cosa da fare che per rendere memorabile la propria gioventù. Sono indagini da approfondire, che restituiscono significato esplorativo alla prosecuzione del progetto e alla sopravvivenza di un X-Factor 2025. Quanto ai risultati finali, vince il vocione di Mimì e ci sta, secondi Les Votives, troppo impregnati di fighettismo di cui però potrebbero anche sorprendentemente spogliarsi. Quello che piaceva di più a noi era Danielle, ma già nessuno se ne ricorda più. Pazienza. Il gioco è questo. E come dice Achille: Senato, batti le mani e non far finta di dormire baby! (Chiudendo con una modesta proposta: perché in un afflato bipartisan, i quattro finalisti di X-Factor non vengono ammessi di diritto alla successiva, imminente edizione di Sanremo? La loro pista di decollo si allungherebbe. E sarebbe divertente vedere come a cosa andrebbero incontro).