Suo figlio Pietro e sua moglie Margaret, i pranzi e le sceneggiature in famiglia, la politica, i peccati e i non pentimenti: “Gli unici fascisti sono quelli impegnati a dare del fascista a chi fascista non è”
“Non c’è nulla di male nel dire che la cultura in questo paese è stata sempre dominio della sinistra. Non si può negare. E’ un dato di fatto”, dice. “La sinistra, bisogna ammetterlo, questo lavoro lo sa fare. Mentre la destra ancora no”, aggiunge. “Ora è evidente che se gli vai a toccare proprio quel mondo lì alla sinistra…”. Succede quel che è successo. Ecco. Il sorriso a filo d’erba, sornione. E’ fatto così, Sergio Castellitto. La sua sostanziale mancanza di snobismo (“sono nato proletario, poi sono diventato piccolo borghese e ora sono borghese: quindi a me non mi fregano”) si disarticola in un eccesso di franchezza che a un certo punto lo porta a dirmi spiritosamente: “Non scriva proprio tutto tutto quello dico”.
Quando lo nominarono presidente del Centro sperimentale di cinematografia da cui si è clamorosamente dimesso poche settimane fa, quando insomma lo misero a capo della “scuola” del cinema italiano, uscirono articoli grotteschi. Tipo: “Le mani della destra sul cinema”. E uno si immaginava chissà quali nomine di amici, cugini, parenti o camerati stessero piazzando gli impresentabili della destra. Invece no. C’era Pupi Avati nel consiglio di amministrazione. Un gerarca? E poi si scriveva anche: “Circolano i nomi di Giancarlo Giannini e Sergio Castellitto”. Due grandissimi attori la cui appartenenza politica è un fatto meno che marginale. Ma scusi, Castellitto, visto che viviamo in un’epoca di patenti e passaporti, chiariamola: lei è di destra o di sinistra? “Guardi la domanda è pericolosa, perché se non sei di sinistra in Italia e nel mondo intellettuale rischi di essere di destra”. Ovvero un po’ un puzzone. L’ha detto all’incirca anche il maestro Riccardo Muti ad Aldo Cazzullo pochi giorni fa quando si è definito “non di sinistra”. Dunque come la mettiamo? “Complicato”, ride Castellitto.
“Io non sono di sinistra”. Ecco. Finalmente. “Senza però per questo essere di destra”. Ah. E che vuol dire? “Rivendico il diritto a fare delle scelte non militanti o meglio militanti à ma maniére”. In un mondo, quello del cinema, in cui a dire il vero essere militanti (di sinistra s’intende) conviene. “Io le posso dire come la penso su alcuni argomenti forse decisivi”. Dica. “Per esempio penso che la famiglia sia importante e che vada difesa, eppure conosco moltissimi omosessuali che sarebbero dei perfetti genitori. E che fanno delle splendide famiglie. E allo stesso tempo conosco eterosessuali a cui invece i figli glieli toglierei. Questa cosa fa di me uno di sinistra o di destra? Penso anche che i migranti vadano salvati in mare sempre, ma penso pure che vada garantita la sicurezza alla vecchietta che non deve essere scippata mentre passeggia in centro da un migrante clandestino che le rompe il femore. Sono di destra o sono di sinistra? Dica lei. A volte ho nostalgia dei magnifici anni del riflusso. Quelli della riservatezza, dell’abbandono dell’impegno pubblico e dei suoi eccessi. Vengo da una famiglia di elettori comunisti, ho sempre votato per i Radicali e adorato Marco Pannella, ma rispetto Giorgia Meloni, le riconosco una dote rara: è una persona frontale”.
Giorgia Meloni è una persona “frontale”, dice Sergio Castellitto. Ma che vuol dire frontale? “Che non naviga, non galleggia”. Elly Schlein? “Ha preso un partito che negli ultimi dieci anni ha puntato tutto sul governare, trovo inevitabile che lei adesso provi a ribaltare ogni cosa, che punti sulla questione dei diritti. Ma non credo che basti. E’ un dato acclarato che gli operai hanno votato Meloni. E’ un dato acclarato dovuto alla crisi della sinistra. Io mi farei delle domande sulle ragioni di questa crisi”. Detto questo, ritorno sulla questione della cultura: trovo miserevole la logica politica applicata all’arte e alle nomine nella cultura. Come trovo appestante il manicheismo secondo il quale se non sei di sinistra, ovvero se non compri tutto quel pacchetto di proposte e di idee, allora sei fascista. Ma perché? Chi l’ha detto? Ma che significa? Mi viene in mente quella frase di Sciascia, com’è che era? ‘Il più bell’esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è’. E’ quasi penoso dover parlare ancora di queste cose. Siamo un paese che vive ancora dei riflessi della guerra civile”. In scala nanometrica, però. Opportunistica, verrebbe da dire.
E questo, per sapienza del destino, è proprio l’argomento dei romanzi di Carlo Mazzantini, il suocero di Castellitto, il padre di sua moglie Margaret, l’autore di ‘A cercar la bella morte’. Un libro che quando uscì, nel 1986, fece scalpore. Carlo Mazzantini raccontò la sua esperienza di giovane ragazzo di Salò, a diciassette anni, dopo l’armistizio dell’8 settembre. “Il suo è un libro straziante sulla pacificazione. Che non c’è mai stata. Ovviamente. Qua ognuno si tiene stretti i propri nemici. Anche Margaret ha raccontato quegli anni in maniera superba. Nel libro ‘II catino di zinco’, il suo romanzo d’esordio. Quella della guerra era una generazione che aveva conosciuto solo quello, solo il fascismo”. “Carlo, mio suocero, che è morto nel 2006, è stato un uomo straordinario. Ha speso tutta la sua vita per scrivere quella testimonianza. Una psicoterapia storica”. A proposito, lei, Castellitto, è forse l’unico regista, attore italiano che probabilmente non ha una casa a Capalbio. Si può essere davvero democratici senza casa a Capalbio? “Ho casa a San Casciano dei Bagni”, risponde lui con uno sguardo che nasconde, sotto un innocente pagliaio, un sottilissimo ago di malizia. “Ve lo ricordate che casino quando arrivarono otto immigrati a Capalbio?”. Poi c’è la casa di Tivoli. “Quella è la casa dei genitori e delle sorelle di Margaret. Da lì Margaret prendeva la corriera Acotral e andava all’Accademia d’arte drammatica. Vi siete conosciuti lì. “Ci eravamo conosciuti al teatro stabile di Genova. Io ero un attore emergente. Lei era una giovane attrice in grande ascesa. Facevamo l’allestimento delle ‘Tre sorelle’ di Cechov. Io avevo trent’anni, lei ventidue”. Poi Margaret Mazzantini ha smesso di fare l’attrice per dedicarsi alla scrittura. “Accadde in Francia. Io ero stato scritturato per una serie tv con Alain Delon che si intitolava ‘Les Pianos de Berlin’. Margaret mi accompagnava. Ebbene, in quei giorni vedevo che scriveva su dei fogli randagi. Allora le regalai un quaderno, un semplice quaderno ad anelli con Indiana Jones in copertina. E lei, su questo quaderno, con una calligrafia indecifrabile, che è il suo codice per non farsi leggere dagli altri, cominciò a scrivere ‘Il catino di zinco’. In quei mesi Margaret trovò il suo grande vero talento. La scrittura. Ricordo che una sera, dopo essere stati a teatro, andammo a salutare la protagonista nel retropalco. Era una grandissima attrice un po’ in là con gli anni. La osservammo mentre usciva dal camerino e si allontanava. Sola. Zoppicando sui tacchi a spillo. Ricordo perfettamente che Margaret mi disse: ‘Io dovrei recitare, per poi arrivare a questo? A questa solitudine?”.
Sergio Castellitto è seduto su una poltroncina di pelle, alle spalle una finestra che dà su una bella strada del quartiere Parioli: alberi, villette dei primi del Novecento. Un po’ Gianicolo e un po’ Londra. South Kensington. Alla romana, però. Infatti se non stai attento per strada prendi pure qualche cacca di cane sotto la scarpa. E te la porti a casa. “E’ il prezzo della bellezza”, dice lui caricando la voce d’ironia. Indossa una camicia bianca, un blazer a righe, pantaloni bianchi, Oxford nere, e poi una semplice catenella d’oro bianco o forse d’argento con una croce al collo. “E’ un regalo che facemmo a Cesare, il mio figlio più piccolo, che adesso ha fatto diciotto anni. Un giorno l’ha rotta, io l’ho fatta aggiustare. E adesso la porto io. E’ un simbolo forte”. Lei è praticante? “Sono un cristiano peccatore”. In cosa pecca? “Un po’ col cibo, un po’ con l’alcol. Qualche cosa la devi pur combinare per guadagnarti la vertigine del perdono. Ma ormai pecco sempre meno. Sono sulla strada della santità. Vede, ho interpretato padre Pio e anche don Milani. Due che non si sarebbero stati simpatici se si fossero incontrati”. Il 19 dicembre uscirà ‘Conclave’ di Edward Berger, in cui mi sono divertito a recitare un cardinale integralista e fumatore”. Se non peccati allora forse pentimenti? Film che sarebbe stato meglio non fare? “Ne ho fatti più di cento di film. Odio i pentimenti e i rimpianti. Non credo nelle carriere integerrime perché spesso nascondono crimini intellettuali. Non credo nella coerenza artistica. Penso che esista l’imperfezione umana. Poi certo, ognuno di noi si porta dietro un piccolo patrimonio di rimpianti privati. Di film che magari era meglio non fare. Ma non mi pesano. Alcune cose le fai perché ci credi e sbagli, altre le hai fatte magari per denaro. Il che è legittimo. Ma niente rimpianti. Mai”. Nemmeno per il Centro sperimentale? Un anno di lavoro tra le polemiche. Una burrascosa dimissione. “Non dirò mai di essermi pentito, e mai dirò che non la rifarei quell’esperienza. Ne conservo un ricordo insieme entusiasta e deprimente. Certo, avrei evitato volentieri di mettermi nel curriculum tutta quella roba, tutta quella macchinetta del fango”. Articoli sulle spese. Sul denaro. “Miserie, anche se irritanti”. Querele? “Non ho mai querelato nessuno, mai”. Ma lei perché si è dimesso? “Oltre al desiderio di tornare al mio lavoro, il motivo più profondo che mi ha spinto a lasciare il Centro sperimentale è stato accorgermi che stavo perdendo l’intimità dei pensieri. Tutto era diventato pubblico, esterno, sotto regolamento. Non so come dire… Immerso nel bosco delle delibere… che non è un bel luogo dove passeggiare. Un artista non può vivere così. E’ il motivo per cui detesto gli scrittori che sanno spiegare i loro libri, o i cantanti i loro testi. Se ti si toglie l’inspiegabile sei perduto”. Scusi, cos’è il ‘il bosco delle delibere’? “E’ il bosco della burocrazia. E’ Gogol’. E’ Kafka. E’ Monicelli… Ma anche Simenon… quella pioggerellina grigia, quell’umido che tutto pervade. All’interno del Centro sperimentale ho trovato persone di grandissima qualità, ma le dico anche che quel posto è abitato da acque stagnanti. Ma ormai ho abbandonato le chat. Esco sereno. Ho fatto cose di cui sono contento. I primi giorni chiesi di incontrare gli studenti. Ci riunimmo nella Sala Blasetti. E gli studenti avevano messo lì un grandissimo striscione. Era subito dopo il 7 ottobre. C’era scritto: ‘No al genocidio dei palestinesi’. Io dissi loro: ‘Mi permetto di suggerirvi altri slogan. Magari, se proprio volete, ‘Due popoli due stati’. Loro non erano d’accordo. Si sono tenuti quello striscione. E amen. Però subito dopo ho dato il via a una iniziativa ‘La diaspora degli artisti in guerra’: abbiamo invitato registi israeliani e palestinesi, russi e ucraini, serbi e bosniaci. Gli abbiamo dato un tavolo. Un microfono. Si parlavano. Si guardavano, forse anche in cagnesco, ma parlavano. Abbiamo proiettato decine di film. Io di quell’evento sono fiero. Questo è stato il mio approccio. La libertà è come un grande vuoto, che dobbiamo riempire di cose belle. Non di pattume”. E Castellitto, dopo aver detto che non ama la militanza, col suo tono d’ironia borghese lascia intendere che diffida anche degli eccessi. Probabilmente perché ritiene, come diceva Elémire Zolla, che l’eccesso sovente sia segno del contrario di ciò in cui si eccede. E infatti, a proposito delle piazze e delle manifestazioni, degli striscioni e delle proteste dice: “Non è un bel segnale vedere fantocci bruciati dalle piazze. Ho visto in questi giorni immagini che ricordano Teheran. Talvolta c’è una ferocia di relazioni umane che fa davvero paura. Ma allo stesso tempo non è nemmeno un bel segnale questo di attribuire patenti di antisemitismo a tutti quelli che osano criticare la politica di Netanyahu in Israele che io personalmente ritengo terribile. Anche perché spingono a dire delle cose surreali”. Tipo? “Tipo dover iniziare una frase precisando che hai molti amici ebrei. Non si dovrebbe arrivare a questo. Anche perché sottintende che sia in qualche modo legittimo e pensabile avercela con gli ebrei”.
L’appartamento in cui parliamo è “lo studio”. Di chi? “In origine di Margaret, adesso devo ammettere che glielo abbiamo occupato un po’ tutti”. Tutti sarebbero lui, Sergio, ma anche Pietro che a trentadue anni è già una star del cinema italiano (“sta scrivendo un film”) e poi anche Maria “che sta preparando il suo debutto alla regia. Margaret invece sta scrivendo una sceneggiatura per me da un libro di Kent Haruf: ‘Benedizione’. Scrivono tutti”, dice Castellitto lasciando arrivare alle labbra la punta di un sorriso. Sempre a filo d’erba. Margaret scrive per Sergio, Sergio recita per Pietro. Un intreccio famigliare e artistico. Come i De Filippo un tempo, chissà, ma senza furibonde liti in famiglia. Anzi. Chissà che pranzi che fate a casa, la domenica. “Rumorosi di sicuro, ma guardi che litighiamo pure. E scherziamo molto”. Chi cucina? “Ah beh, Margaret. E’ la cosa che fa meglio oltre a scrivere. Peraltro, due attività che in lei sono anche collegate. Mi ricordo ancora una scenetta di Pietro da bambino. Arriva, assaggia un piatto di Margaret e dice: ‘Buono, oggi mamma ha scritto bene’”. La famiglia Castellitto è un film nel film. “Facciamo molte cose insieme, con allegria”. Siete un clan, come quello di Celentano? “Un reticolo di intese, di dipendenze affettive, culturali e operative. Sì. A casa nostra è un po’ così. Anche se la parola clan la si può interpretare anche in senso negativo. Infatti preferisco la definizione di comunità famigliare, questo siamo”. Una famiglia in cinemascope. “Penso spesso al mio ruolo di genitore, di padre. Sono arrivato alla conclusione che nella vita non sei un solo padre, ma sei tanti padri diversi in fasi diverse dell’esistenza. Sei un padre a trent’anni, poi sei un padre diverso a sessanta. La tua energia è diversa, e sono i figli che segnalano i tuoi cambiamenti. I loro sogni e le loro inquietudini rieducano le mie. Per questo penso di essere grato a loro molto più di quanto pretenda la loro gratitudine”. Preoccupazioni per i figli? “No. Loro ce la fanno. Il talento è come l’acqua, non la fermi, passa, permea. Anche se ovviamente irrita”. Chi? “I mediocri”. Film da vedere? “’La zona d’interesse’. Un film che mi ha turbato e commosso. E poi ‘Emilia Perez’, la storia di un boss del narcotraffico messicano che decide di cambiare sesso perché si sente donna”. Al cinema ci va spesso? “Meno di quanto vorrei. Adoro il cinema, ma penso anche che i film si possono vedere con tutti gli strumenti possibili”. Anche alla tv. Anche sull’iPad? “Ricordo una notte che entrai in camera di Pietro, era ancora un ragazzino. Stava guardando ‘La notte’, il film di Antonioni. Rimasi stupefatto, e non perché Pietro stesse guardando quel film così bello e così apparentemente lontano dalla sua generazione. Ma rimasi stupefatto perché io l’avevo guardato al cinema, con lo sguardo rivolto verso l’alto. E lui invece lo stesso film lo stava guardando sul cellulare con lo sguardo verso il basso”. Il cinema è meglio, no? Un critico cinematografico una volta mi ha detto di non andare a vedere “Oppenheimer” di Nolan se non al cinema: gli attori sullo schermo devono essere alti almeno tre metri e mezzo, mi diceva. Altrimenti non ha senso nemmeno vederli i film, insisteva. “No, io non sono d’accordo con queste cose. Credo che il cinema sia l’unica arte sottoposta al progresso tecnologico. Il teatro è rimasto uguale da quattromila anni circa. C’è sempre Epidauro. Il cinema invece è sottoposto a un processo evolutivo continuo. Oggi per esempio c’è l’algoritmo. Che sceglie cosa è buono e cosa non lo è, quali copioni vanno trasformati in film e quali resteranno soltanto carta”. L’algoritmo spesso produce schifezze però. “Non c’è dubbio. Produce anche cose atroci. Certo. Ma non creda che le persone siano sempre meglio. Nel corso della mia vita ho incontrato funzionari e produttori terribili. Ecco, non so se l’algoritmo sia meglio o peggio di certi trogloditi che trovi in giro”. Anche funzionari della Rai? “Beh, non tutti certo, ma in passato ne ho incontrati alcuni che ti fanno tifare per l’algoritmo”. Gente tipo quella effigiata da “Boris”, la serie tv che faceva la satira delle fiction Rai? “Una serie fenomenale, quella. Fe-no-me-na-le. Che ha rivelato e scardinato come funzionano certe cose attraverso la chiave del grottesco”. Un’ultima domanda: pare stiano per nominare Gabriella Buontempo, produttrice cinematografica, al suo posto. Lì, al Centro sperimentale di cinematografia che lei ha da poco abbandonato. Una produttrice al posto di un attore-regista. E’ la scelta giusta? “Penso di sì. Penso sia brava. Ha una eccellente esperienza manageriale. Le ho mandato un messaggio di in bocca al lupo”. E cosa c’era scritto nel messaggio? “C’era scritto: ‘Le chiavi le trovi sul tavolo’”.