Nell’attesa che i governi trovino la chiave giusta per risolvere il problema, ci sono iniziative “dal basso” che si propongono di educare genitori e figli a un uso consapevole della tecnologia
Si fa presto a dire “divieto di social per gli under-16”. Il governo australiano ci sta provando con una legge che sta facendo molto discutere, generando reazioni d’ogni tipo. C’è chi la incensa e chi grida all’attentato alle libertà personali e alla privacy. Elon Musk, insieme a una parte significativa del settore tecnologico, ha reagito nervosamente e criticato la proposta di legge. Altri, invece, hanno avuto reazioni più miti e concilianti ma rimangono scettici per quanto riguarda l’applicazione della legge.
Secondo la proposta australiana, infatti, gli under-16 non potranno creare account sui social media, e starà proprio alle aziende del settore fare in modo che non succeda: saranno quindi ritenute responsabili in caso di infrazione altrui. Non ci sono molti dettagli sul come o il cosa, almeno per ora, ragione per cui c’è chi chiede di posticipare la legge – che entrerebbe in vigore tra un anno – fino a quando le piattaforme non riceveranno informazioni più dettagliate.
Nell’attesa che i governi trovino la chiave giusta per risolvere il problema – e ammettendo che una chiave simile esista – non mancano iniziative “dal basso” per gestire il rapporto tra giovani e gli schermi. Una di queste si chiama Patti Digitali, promossa tra le altre persone Stefania Garassini, presidente di Aiart Milano e docente di Content Management all’Università Cattolica di Milano, che ha raccontato al Foglio il progetto.
“Si tratta di alleanze che vengono create tra genitori all’interno di una scuola, per esempio di una classe o anche di un territorio specifico, o anche di un gruppo sportivo o un oratorio”. Insomma, ovunque ci sia un gruppo di genitori che decide di condividere alcuni principi per l’utilizzo degli smartphone e social media. “In genere, noi consigliamo la fine della seconda media prima di dotare il proprio figlio di uno smartphone”.
L’iniziativa è nata qualche anno anche in seguito a una ricerca dell’Università Bocconi in cui si chiedeva ai genitori perché avessero regalato uno smartphone al proprio figlio a 9-10 anni. “La risposta più frequente era stata perché ce l’hanno tutti”, conclude Garassini. I Patti Digitali vogliono andare ad agire proprio su questo punto, rendendo meno forte la pressione sociale sui figli – e i genitori.
Non basta, però, perché “il primo passo prevede che i genitori si mettano per primi in discussione sull’uso di questi strumenti, che spesso non è esemplare”. Prima di imporre limiti d’età alla prole, quindi, occorre un esame di coscienza anche da parte degli adulti, ed evitare una deriva per cui lo smartphone finisce per “convenire” anche ai genitori, che possono così controllare il comportamento dei figli. Anche perché questo tipo di atteggiamento rischia di creare un rapporto conflittuale, di diffidenza, che spinge il figlio a nascondersi o cercare modi di contravvenire alle regole. Secondo Garassini, è essenziale costruire un rapporto di fiducia, che include l’idea di concedere uno strumento simile solo a un’età adeguata. Inoltre, è fondamentale “mantenere una sana curiosità verso ciò che fanno i figli, evitando atteggiamenti ossessivi o giudizi eccessivi.”
Una legge non sarà sufficiente, su questo ci sono molti dubbi: servirà un cambiamento culturale e sociale in grado di creare una prassi comune, per la quale prima di una certa età non si va sui social. Più facile a dirsi che a farsi, visto che anche YouTube è un social media e ha un ruolo ormai fondamentale non solo nell’intrattenimento degli adolescenti ma di quello dei bambini. Si tratta di una questione ancora più intricata di quello oggetto dalla legge australiana, come quello delle generazioni che stanno crescendo con canali come Cocomelon.
Garassini sembra però fiduciosa sulla capacità delle nuove generazioni di correggersi da sole, anche meglio dei legislatori. “Io credo molto nella generazione di chi ha oggi tra i 18 e i 25 anni,” ha concluso, “che essendo cresciuti sui social media, ne conoscono alla perfezione vantaggi e svantaggi. Se si parla con loro, si scopre che difficilmente un ventenne dirà che darebbe lo smartphone o garantirebbe l’accesso ai social a chi ha 11 anni”.
Oltre a stabilire regole, quindi, sarà necessario costruire una cultura digitale condivisa, una serie di prassi in equilibrio tra le preoccupazioni dei genitori e i bisogni dei più giovani, senza cedere ad allarmismi. Una prova d’equilibrio non da poco, di cui la legge australiana è solo uno dei primi tentativi che verranno fatti. Del resto, da qualche parte si vede pure iniziare.