Per colmare il nostro gap di crescita digitale servono meno vincoli

Il libro dell’Istituto Bruno Leoni analizza come l’innovazione digitale oggi sia una partita solo tra Stati Uniti e Asia: il Rapporto Draghi individua proprio nell’assenza dell’Ict dalle nostre aree di specializzazione una delle maggiori cause della nostra esclusione

Che rapporto c’è tra innovazione e regolazione? Questa è la principale domanda a cui dovrà rispondere la nuova Commissione europea. Nel campo dell’innovazione digitale, durante la scorsa legislatura il commissario Thierry Breton legò il suo nome a iniziative aggressive nei confronti degli operatori del settore, regolamentando minuziosamente le condotte e, in alcuni casi, perfino il modello di business. Le istituzioni europee sono arrivate a vantarsi di avere la prima legge al mondo sull’intelligenza artificiale, prima di avere campioni europei di intelligenza artificiale. Adesso che il diritto dell’Unione, su iniziativa della Commissione von der Leyen 1, si è strutturato attorno a questo approccio, con l’idea esplicita di diventare una “superpotenza della regolazione” e imporre le nostre regole al mondo intero, la Commissione von der Leyen 2 rischia di doverne raccogliere i frutti. Lo stiamo vedendo nelle concrete scelte di diverse aziende che hanno escluso l’Ue dai loro piani di sviluppo. E lo vediamo dalla fotografia dell’ecosistema digitale, dalla quale sono quasi del tutto assenti operatori di grandi dimensioni radicati in Europa. Oggi l’innovazione digitale è una partita tra Stati Uniti e Asia: il Rapporto Draghi individua proprio nell’assenza dell’Ict dalle nostre aree di specializzazione una delle maggiori cause del gap di crescita che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi decenni.

Ci occupiamo di questi temi nell’ultimo libro che abbiamo curato per conto dell’Istituto Bruno Leoni, “Le sfide delle politiche digitali in Europa, che raccoglie i contributi di molti studiosi e policy-maker, tra cui Laura Aria (componente dell’Agcom), Guido Scorza (componente dell’Autorità garante per la Privacy) e il viceministro delle Imprese e del Made in Italy, Valentino Valentini. L’obiettivo del volume è quello di aprire un dibattito ospitando posizioni diverse, ma anche sottolineando quale, a nostro avviso, dovrebbe essere la direzione di marcia per recuperare almeno parte del terreno perso in questi anni.


A livello europeo, infatti, già esistono nell’ordinamento i cardini di un sistema più aperto nei confronti dell’innovazione. Anzi, essi sono i perni attorno a cui si è costruita l’integrazione di uno spazio economico e giuridico comune: il diritto della concorrenza, che conferisce alle autorità nazionali ed europee gli strumenti per contrastare gli abusi; le norme comuni a difesa della privacy e dei diritti dei consumatori; i numerosi limiti che, per ragioni etiche o di minimizzazione del rischio, prevengono iniziative che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza.

Tuttavia, nel tempo, anzi negli ultimi tempi, si è sviluppato un quadro di provvedimenti che rischiano di cambiare le coordinate di tale spazio e, con ciò, dei mercati che vi possono fiorire. Questi provvedimenti da un lato tipizzano comportamenti e tecnologie, e in tal modo lasciano fuori dalla porta tutto ciò che oggi non c’è ma domani potrebbe. Dall’altro, prendono le mosse dal (pre-)giudizio che la semplice dimensione è sufficiente a pronunciare una condanna a priori nei confronti delle piattaforme online, obbligandola a vincoli e oneri senza neppure prendersi la briga di provare un danno consumato. Dall’altro lato, questa enfasi sulle limitazioni, gli obblighi e i divieti potrebbe scoraggiare ulteriormente, anziché attirare, gli innovatori. E questo può avere conseguenze enormi soprattutto nei settori che evolvono più rapidamente, come l’intelligenza artificiale. Oltretutto, la segmentazione dei poteri si traduce talvolta in decisioni scoordinate o addirittura contraddittorie: per questo vanno seguiti con attenzione e valorizzati, come scrive Flavio Arzarello (Meta) nell’introduzione al libro, quei casi di collaborazione che si stanno registrando in alcuni paesi Ue e che hanno indotto il Garante francese della privacy a suggerire il riconoscimento esplicito del diritto all’innovazione.

Naturalmente, sarebbe sbagliato pensare che il gap tecnologico europeo dipenda solo da un corpus di norme tutto sommato recenti: ma queste, se non l’hanno causato, probabilmente lo aggraveranno e certamente non lo risolvono. Anzi: vi è chi sostiene che la principale ragione dell’arretratezza europea va cercata in altri ambiti, dalla regolamentazione finanziaria alla disciplina d’impresa fino al diritto fallimentare. Ma in fondo l’approccio che c’è dietro questi ambiti regolatori è lo stesso. L’innovazione è per definizione un terreno incerto e ha bisogno di trovare un contesto in cui il rischio e il fallimento stesso vengono rispettati. Se avessimo dedicato a risolvere questi problemi strutturali una parte dell’impegno che la politica europea ha speso nel tentativo di imbrigliare imprese percepite come estere, forse la nostra velocità di marcia nella direzione del progresso sarebbe stata un’altra.

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