Tavares era rimasto l’ultimo ceo dell’automotive europeo a difendere la linea rigida. Un approccio che predevibilmente cambierà con il nuovo management. Ma a medio termine l’unica soluzione è su scala europea. Oltre la narrazione autolesionista del governo, per un obiettivo non demagogico. Idee per una svolta
Tavares si è dimesso. Fintantoché riesci a distribuire 23 miliardi di euro agli azionisti in tre anni sotto forma di dividendi, gli azionisti sono pronti ad accettare i tuoi guadagni stellari e le tue strategie, inclusi i litigi con i governi ed i sindacati. Ma quando crolla il numero di auto consegnate, e di conseguenza crollano ricavi, utili e valore del titolo in borsa, le fredde e spietate regole della finanza impongono scelte drastiche.
Naturalmente invece i nostri eroi al governo e certa parte dell’opposizione, hanno subito attribuito un peso fondamentale alle schermaglie tra Tavares ed Urso, alla fallimentare audizione di Tavares in Parlamento. Poco è mancato che Salvini, si attribuisse il patrocinio politico delle dimissioni. Le ragioni della crisi stanno invece nel crollo della quota di mercato di Stellantis negli Stati Uniti; nell’esplosione della Cina come produttore mondiale di automobili; stanno, infine, nella fideistica adesione di Tavares alla scelta europea dell’elettrificazione, al punto da respingere qualunque adesione di Stellantis alle richieste di rinvio dello stop ai motori termici, nonostante il crollo delle vendite di auto elettriche in Italia, ma anche in Europa. Cosa succederà adesso?
Non c’è dubbio che la crisi Stellantis sia particolarmente grave per la produzione di auto in Italia che difficilmente supererà il mezzo milione di veicoli nel 2024, lontanissima dall’auspicio di un milione di vetture del ministro Urso. Non c’è dubbio che l’intera filiera dell’automotive, tradizione e vanto dell’industria italiana, sia oggi fortemente a rischio.
Il tema è complesso e certamente non aiutano a risolverlo le antistoriche richieste di parte dei sindacati italiani del settore, che reclamano a gran voce la ripartenza delle linee di produzione fino a saturazione della capacità produttiva delle stesse a prescindere dalla possibilità di vendere il prodotto. Si produce se si vende. E si vende se il prodotto è di qualità e ad un prezzo competitivo con i concorrenti. Dura lex, sed lex.
E allora è inimmaginabile che, chiunque sia il nuovo ceo di Stellantis, possa cambiare radicalmente la politica di delocalizzazione della produzione di massa (a basso valore aggiunto) in Paesi a minor costo della manodopera e, soprattutto, a minor costo dell’energia. Non cambierà la strategia di valorizzare il marchio del made in Italy sulle produzioni di maggior valore, del resto avviata già ai tempi, ormai da considerarsi eroici, di Marchionne. Semmai, in questo senso, sarà necessario che il nuovo ceo dia impulso ad a una drastica innovazione di prodotto, dal momento che il ciclo di vita degli ultimi modelli Maserati sembra ormai concluso, tale da non renderli competitivi in un segmento particolarmente affollato e ricco di competitors di grande prestigio.
È viceversa prevedibile che cambi l’approccio del nuovo management nei confronti del green deal e della rigorosissima road map imposta dalla Commissione europea verso il definitivo stop alla produzione di auto a motore termico previsto per il 2035. Già i rigidi vincoli sulle emissioni imposte nel 2025, in assenza di mercato delle auto elettriche, potrebbero essere soddisfatti solo tagliando la produzione di auto tradizionali, e questo è certamente un assurdo. E’ difficile non sostenere che la scelta dell’Europa sia stata dettata da furore ideologico, che si è tradotto in un gigantesco regalo alla Cina ed in un involontario strangolamento per il settore automotive europeo. Il percorso verso la decarbonizzazione attraverso l’elettrificazione della mobilità è giusto, ma una maggiore gradualità e flessibilità si impongono. Tavares era rimasto l’ultimo ceo delle industrie automobilistiche europee a difendere la linea rigida (e ha pagato questa posizione), è prevedibile che molto cambi in questo ambito.
Allo stesso modo, è auspicabile un rapporto più costruttivo con il Governo nazionale, che, dal canto suo, è chiamato a scelte maggiormente rispettose del settore automotive e della sua importanza in Italia. Tagliare dell’80 per cento, in soldoni 4,6 miliardi di euro, il fondo creato dal governo Draghi destinato a sostenere il settore, decretare, in tal modo, la fine degli incentivi per l’acquisto di nuove vetture, meno inquinanti ed elettriche, è stata una scelta autolesionistica e scellerata, nella logica del muro contro muro, che conduce solo al disastro. Oggi la politica degli incentivi, meglio se attuata su scala europea, è inevitabile per sostenere il settore in un momento di grande transizione e criticità. Basta guardare subito fuori confine: non appena il governo tedesco ha stoppato gli incentivi il mercato è crollato.
Questo nell’immediato. A medio termine, al di là di ciò che pensano i sovranisti de noantri, l’unica soluzione alla crisi dell’auto, ma anche l’unico modo per reggere alla competizione cinese, è su scala europea. Soltanto superando la competizione tra le diverse case e puntando ad un vero campione europeo per la produzione delle batterie e dei veicoli, alzando la scala del problema per ottenerne economie, è possibile competere. Investendo in ricerca per migliorare il rendimento delle batterie, ripensando il sistema di ricarica (perché non immaginare reti di distributori in cui è possibile cambiare l’intera batteria?), studiando le migliori tecnologie di riciclo delle batterie esauste, tutto a livello europeo.
Un esempio già c’è: in Giappone Suzuki e Toyota hanno stabilito una forte collaborazione per la produzione di un Suv 4×4 elettrico. Due giganti comprendono che solo insieme possono competere.