Tentare di capire perché si perde. Intervista a Yuki Ishikawa

La pallavolo, la libertà. l’Italia, la vita lontana dal Giappone e l’indagine necessaria per non ripetere gli errori che conducono alle sconfitte. Parla lo schiacciatore della Sir Safety Perugia

In Giappone gli ricordano le sue responsabilità. Un peso insormontabile, per certi uomini. Ma Yūki Ishikawa ha le spalle larghe. “Tanti bambini mi guardano. E allora sento di dover stare bene, essere forte, giocare al meglio. Sono una persona così: la responsabilità mi piace, so che posso fare di più”. C’è qualcosa di eroico in questo ragazzo dall’aria gentile, schiacciatore della Sir Safety Perugia, 28 anni, laureato in legge, appassionato di baseball e di manga. Quando arrivò in Italia la prima volta, dieci anni fa, disse che partiva per perfezionare la sua pallavolo. Proprio come il personaggio di un romanzo, la sua evoluzione è stata costante. “Avevo diciotto anni. Rimasi quattro mesi a Modena. In Italia sono migliorato tantissimo”. Perugia è una tappa della sua crescita, la più importante. Yūki cerca onore e gloria, e i colori della Sir possono dargliela. “È l’ambiente perfetto per me. A Perugia sto alzando il mio livello. Ma devo lavorare ancora molto sulla ricezione, la battuta e l’attacco in palla alta. Vincere è quello che voglio”.

Per ora sta andando tutto come previsto?

“È una stagione molto difficile. Tutte le squadre ci vogliono battere. Noi non dobbiamo vincere: noi vogliamo vincere”.

Come nasce questa mentalità?

“Voglio sempre migliorare, fare di più, cercare di raggiungere il massimo. Mi impegno ogni giorno perché questo si realizzi. E a Perugia ci sono giocatori di altissimo livello, sto imparando molto”.

Se lo ricorda il giorno che è partito dal Giappone?

“All’inizio non mi mancava tanto. Ero stato studente all’università, vivevo con altri ragazzi, giocatori come me. Sono arrivato a Modena, dopo due mesi non capivo ancora la lingua, vivevo da solo: ho fatto un po’ fatica. Però quando sono rientrato a casa è stato strano, stavo entrando nelle logiche italiane, cominciavo a capire. Ci voleva più tempo”.

Quindi è tornato. Tra un’esperienza e l’altra sono trascorsi dieci anni: ha mai avuto momenti di crisi?

“No, non ho mai pensato di scappare. L’Italia mi ha dato e mi sta dando la possibilità di giocare a livelli altissimi. A Modena c’erano tanti stranieri: francesi, brasiliani, serbi. Non è stata una sorpresa però ero un po’ spaventato. Mi dicevo: loro sono stranieri, ma parlano in italiano, comunicano. Ci è voluto del tempo”.

Dieci anni fa incontrò Lorenzetti e lo ha ritrovato alla Sir.

“È stato importante per me, per la crescita. All’inizio l’ostacolo della lingua era di entrambi: io poco inglese, lui anche. Alcuni compagni mi aiutavano. A Perugia è diverso, sono molto contento di lavorare con Angelo”.

Cosa ha capito degli italiani?

“Qui in Italia è tutto abbastanza libero. In Giappone è più dura: le regole e tutto il resto. Qualche volta è troppo. Ma questa cosa è una cosa buona del Giappone. Invece qui non è così dura. Però a volte è troppo libero. Ci vorrebbe una cosa a metà”.

Cos’è per lei la pallavolo?

“Un lavoro, ma soprattutto la mia passione. E adesso è anche la mia vita, sto vivendo per giocare a pallavolo”.

È vero che tutto cominciò in terza elementare?

“Mia sorella giocava a pallavolo con un club. Andai a vederla. L’allenatore della squadra avversaria mi disse “perché non provi?”. Mi insegnarono l’approccio, presi una decina di lezioni. Alla prima partita colpii la palla, non bene ma feci un punto. Non ricordo granché, solo che mi sono sentito bene, soddisfatto, contento. E allora ho cominciato”.

Okazaki, la sua città, che posto è?

“È famosa per la pallavolo, tutti i bambini giocano. Lì ci sono la mia famiglia, i miei genitori hanno un’azienda che produce componenti per le automobili. E ci sono i miei ex professori, i miei amici. Ogni volta che torno cerchiamo di andare a cena. Sono persone importanti per me”.

Cosa le hanno insegnato i suoi genitori?

“Mia mamma è un’ex giocatrice di basket e papà faceva atletica leggera. Prima della pallavolo ho giocato a baseball. Una volta ho chiesto a mia madre perché prima del volley avevo fatto solo un anno di baseball. Non volevi fare nulla, è stata la risposta. Mi sarebbe piaciuto giocare a calcio, ma non c’era una squadra vicino a casa mia”.

Ha mai pensato che l’altezza ha condizionato la sua vita?

“Non lo so, non ci ho mai pensato davvero. Però è vero: forse senza l’altezza avrei fatto altro”.

Lo sport si regge sulle sconfitte. Lei ne ricorda una memorabile?

“Quella contro l’Italia alle ultime Olimpiadi. Anche se ci sono altre gare importanti che abbiamo perso: ai Mondiali in Slovenia contro la Francia, per esempio. Stessa situazione vista contro l’Italia: un punto, due punti, tie break: ci mancava così poco per vincere. Secondo me è importante fare esperienza. Ma come Giappone ci siamo davvero vicini. Tante volte ho pensato: cosa manca?, cosa dovevamo fare? Sono uno che pensa molto, devo capire perché si perde, quindi penso spesso”.

E cosa ha capito?

“Che ci vuole esperienza quando sale la pressione, quando arrivano i punti che contano. Perché poi vinci, prendi fiducia, vai avanti”.

Le Olimpiadi cosa le hanno lasciato?

“Rammarico, tanto. Non voglio esagerare, ma avremmo potuto vincere l’oro. La partita contro la Germania è stata la chiave. Avevamo iniziato male la nostra avventura, ma contro la Germania no: ci siamo ritrovati. Passato il girone, contro l’Italia abbiamo lasciato indietro la sensazione negativa. Eppure, nel momento topico contro gli azzurri quella sensazione è un po’ tornata. Quella sconfitta ci servirà”.

Lei e il Giappone avete grandi ambizioni. Ha un desiderio?

“Sì, tanti: prendere una medaglia olimpica con la Nazionale e vincere tutto con Perugia. In fondo sono qui per questo”.

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