Il regista Fabio Cherstich ritiene che sia arrivato il momento di abbandonare i vecchi snobismi per cui il teatro guardava la moda dall’alto in basso, con la presunzione di detenere una superiorità culturale. L’una deve qualcosa all’altra, ed entrambe possono imparare a restituire centralità all’umano
Parlare del rapporto tra teatro e moda nella mia esperienza di regista e scenografo significa fare un viaggio nel tempo. Era il 2004 quando arrivai a Milano per frequentare la Scuola Civica di Teatro Paolo Grassi, ma il mio vero battesimo risale a molto prima, nella mitica scuola media Tiepolo di Udine, dove, calato in un improbabile costume da Papageno nel Flauto Magico, con la sicumera tipica degli adolescenti, mi convincevo che il passo successivo sarebbe stato il palco del Teatro alla Scala. Non è andata esattamente così. Ai tempi del mio sbarco a Milano, il teatro viveva un momento di grande sperimentazione e ricerca continua nei confini già fluidi tra generi e linguaggi. Esisteva il festival UOVO (ricordo il primo ciclo “Cremaster” di Matthew Barney come uno shock che devo ancora assorbire del tutto), c’erano i Motus, la Societas Raffaello Sanzio di Romeo Castellucci e tutto il teatro dell’immagine romagnolo: artisti visionari che mescolavano con gusto iconoclasta avanguardia e tradizione. Alla Paolo Grassi, noi studenti saltavamo senza soluzione di continuità da Beckett a Kantor, da Bausch ad Abramović, con una convinzione incrollabile: stavamo reinventando il teatro. La realtà? Era il teatro che stava reinventando noi. Questo senso di radicalità, del teatro come rito totale e collettivo ha lasciato il segno. Anche ora, in contesti lontani dal palcoscenico, come un backstage di moda, il richiamo di una storia raccontata dal vivo rimane impareggiabile. Ma che c’entra il teatro con la moda?
Nel 2017, il mio amico Arthur Arbesser, stilista attento alle contaminazioni tra linguaggi, mi propose di curare l’allestimento di una sua capsule collection per YOOX. Pensavo fosse un lavoro scenografico. Invece, è stata l’occasione per creare uno spettacolo surreale: modelli, attori e danzatori immersi in un delirio di gesti e situazioni performative. Ora Arthur si diverte a fare il costumista per i miei progetti: il migliore degli scambi possibili. L’idea è quella dell’attivazione: applicare la vitalità del teatro alla messa in scena della moda, raccontare storie invece di accumulare immagini. Nel mare di contenuti visivi di oggi, il rischio è l’assuefazione. Serve qualcosa di più vivo e umano. Se il teatro fatica a stare al passo coi tempi, la moda ha il vantaggio di essere sempre profondamente connessa al presente, e, in più, può attingere a risorse che consentono di pensare e realizzare grandi progetti. Hussein Chalayan, Franco Moschino e Lee Alexander McQueen lo avevano capito molto prima di noi: sfilate come quella A/W 2000 di Chalayan, con mobili che si trasformavano in abiti, sono un attestato grandioso delle possibilità immaginifiche che il teatro può suggerire alla moda. E se da una parte abbiamo esempio di stilisti-registi, ci sono anche i registi considerati radicali che si prestano con passione alla moda: Robert Wilson ha progettato allestimenti per Giorgio Armani ed Hermès, mentre Robert Carsen ha celebrato Karl Lagerfeld con un kolossal al Grand Palais. Moda e teatro non sono mai stati davvero distanti come si crede.
Ho sperimentato anch’io in questo senso: negli ultimi anni ho collaborato con brand di moda e di design, con stilisti e direttori creativi. La mostra appena inaugurata su Elio Fiorucci alla Triennale di Milano, di cui ho curato il set design e la regia, è stato un piccolo esperimento di teatro applicato. Ricostruire la sua aula d’infanzia e gli ambienti dei negozi, distribuire per la mostra telefoni e altoparlanti che trasmettono la sua voce sono la mia interpretazione della creatività irrefrenabile di Fiorucci, che non si limitava a vestire ma a raccontare universi interi. Un lavoro significativo per il mio percorso si è concluso poche settimane fa: “Tales & Tellers”, una performance di cinque giorni ideata con l’artista visiva Goshka Macuga per Miu Miu durante Art Basel Paris 2024. Trentaquattro film si sono trasformati in altrettante performance live: attori e personaggi che si animavano nello spazio, culminando in un’occupazione simbolica del Palais d’Iéna. Non dico che fosse un gesto politico, ma nemmeno lo nego.
Alla fine, è forse ora di abbandonare quei vecchi snobismi per cui il teatro guardava la moda dall’alto in basso, con la presunzione di detenere una superiorità culturale. L’una deve qualcosa all’altra, ed entrambe possono imparare a restituire centralità all’umano. Come diceva Antonio Neiwiller, “nell’ipotesi di massima informatizzazione della società e di massima massificazione delle condizioni di vita degli uomini si andrà a teatro perché là ci sono ancora esseri che sudano, piangono, si tagliano, cadono e sono felici”. Se riesco a portare un po’ di questo anche nella moda, allora ne vale la pena.