Dalla partita della revisione alla sfida della trasparenza, su cui il successore di Fitto dovrà giocarli molto delle sue carte di popolarità, fino alla drammatica questione delle task force dentro i ministeri per l’attuazione dei progetti. Il neoministro gli affari europei si è mostrato subito consapevole che sul Piano c’è molto da correre
Il primo commento di Tommaso Foti non poteva che essere che va tutto bene e che Raffaele Fitto ha fatto un gran lavoro. Ma il neoministro per il Pnrr si è anche mostrato subito consapevole che “non si possano fare pause” e c’è da correre. Essendo dello stesso partito del vicepresidente della commissione e della premier, c’è da immaginare che la situazione gli sia stata descritta per quella che è. Difficilissima.
Anche la recente mini-revisione del Pnrr per modificare alcuni target della sesta rata e consentire così il via libera di Bruxelles al nuovo incasso la dice lunga sulla condizione pirandelliana in cui è entrato ormai il Pnrr, con una opacità che impedisce di distinguere le cose che vanno e le cose che presentano profili critici. Anche il tormentone poco elegante dell’Italia primo paese per raggiungimento dei target e incassi rischia di diventare un boomerang perché via via che crescono gli incassi con una spesa che non si sblocca crescono pure gli avanzi che cominciano a essere imbarazzanti. Che ci facciamo con quella cinquantina abbondante di miliardi che la Ue ci ha dato per gli investimenti e che invece stanno fermi nelle casse del Tesoro?
Al neoministro per il Pnrr converrebbe silenziare il ritornello del “va tutto bene” e utilizzare subito, al meglio, gli strumenti per rimettere in carreggiata l’autobus Pnrr. Tanto più che alcune occasioni sono già pronte lungo la strada e vanno solo colte. Prima fra tutte la megarevisione del Pnrr – la seconda di ordine generale dopo quella approvata l’8 dicembre 2023 – programmata per il prossimo febbraio.
Gli uffici tecnici ministeriali e quelli di Bruxelles ci stanno già lavorando da tempo, con un obiettivo fondamentale: ripulire il programma italiano di tutti quegli investimenti che ormai è chiaro non arriveranno in tempo per il giugno 2026. Questo consentirebbe all’Italia di mettersi in regola almeno momentaneamente per avanzare una richiesta, meno velleitaria di quelle fatte finora, di una proroga del termine del giugno 2026. Oppure – ed è un’alternativa che proprio Foti dovrà spingere se la riterrà opportuna – cominciare a discutere quali saranno gli effettivi criteri di contabilizzazione al termine del percorso. In altri termini, se e come si potranno acquisire margini di flessibilità per considerare completati anche solo stralci o pezzi di programmi e di opere.
Per ora i regolamenti europei – che sarà Fitto a dover applicare – lo vietano, ma potrebbero aprirsi dei margini. E qui c’è un primo problema politico: Meloni e Foti con chi andranno a discutere e a chi chiederanno questa flessibilità, a Fitto o a Dombrovskis? Sarebbe una bella mossa quella di prendere subito il toro per le corna, certo con l’aiuto del commissario italiano, evitando di essere poi impallinati strada facendo. Bisognerà tenere i riflettori accesi sulle prime mosse di Foti, che è politico di lungo corso, a Bruxelles.
Comunque sia, la megarevisione si farà, è già bella intavolata, e non c’è dubbio che la parte fondamentale di questo lavoro sarà ancora far uscire lavori in ritardo e far entrare proposte fresche. La scelta dei due elenchi è la prima vera priorità del nuovo ministro, che dovrà stressare i ministri per avere un quadro realistico. Anche qui sarà interessante vedere se Foti replicherà il rapporto duro che aveva instaurato Fitto o cercherà vie più diplomatiche, magari chiedendo l’aiuto di Meloni.
Nella partita con Bruxelles un aspetto che risulterà decisivo è quello delle contropartite offerte dall’Italia in cambio della flessibilità. La rimodulazione può essere infatti anche l’occasione per proporre qualche nuova riforma importante che faccia colpo sui vertici comunitari. Per esempio, una riforma radicale della programmazione, della pianificazione, dell’attuazione e dei controlli degli investimenti pubblici. Qualcosa che consenta di dire che il Pnrr ci ha permesso quanto meno di capire dove siamo bloccati e cosa ci manca, correndo ai ripari prima che scada. Detta così, il Pnrr non passerebbe invano: si eviterebbe di disperdere quanto appreso con il metodo Pnrr, mettendolo invece a sistema. Il rischio vero è altrimenti quello di tornare indietro. Una proposta del genere darebbe alla Commissione la forza per dire di aver fatto bene a scommettere su NextGeneraretionEU come piano di performance. Che è poi la vera partita politica che, in un certo senso, rende alleati la commissione e l’Italia, potenziale anello debole di tutta l’operazione Next Generation.
C’è poi una sfida di trasparenza su cui il politico Foti si gioca molte delle sue carte di popolarità. Una strada potrebbe essere ricominciare a raccontare il Pnrr per quello che sta davvero producendo, staccandosi dalla politica seguita finora dei silenzi e della concentrazione del dibattito sugli aspetti tecnici. Gli italiani hanno perso completamente la focalizzazione sul piano, nessun cittadino comune ne sa più nulla e tanto meno ha fiducia che il Pnrr porti benefici a lui o al paese. Certo, per Foti significa esporsi a una sfida rischiosa, visto il pericolo di bocciature a Bruxelles fra diciotto mesi, ma potrebbe anche essere un’occasione per una seconda vita del Pnrr nel rapporto con i cittadini. Informarli, non negare luce e ombre, portarli dalla propria parte in vista dello scontro finale.
Infine, c’è la situazione davvero drammatica delle task force che devono portare avanti il Pnrr nei ministeri. Chi dovrà gestire questi 120 miliardi che ci restano da spendere nei prossimi diciotto mesi con uno sforzo amministrativo mai visto prima in Italia? Si fa finta di non vedere che retribuzioni limitate e contratti a tempo determinato hanno prodotto la fuga dalle strutture ministeriali, sguarnite ormai per due terzi. E’ urgente potenziare quelle strutture e nessuno sarà disponibile ad affrontare diciotto mesi di fuoco, con responsabilità enormi, senza la garanzia di un’assunzione vera nella Pa. Anche questo problema, sempre rimandato, ora viene a galla drammaticamente. La legge di bilancio è forse l’ultima occasione per cercare una soluzione.