Il talento e il lavoro per farlo emergere; gli allenamenti, la testa e la libertà e l’ottimismo che ci vuole per diventare vincenti. Chiacchierata con l’atleta azzurro e il suo allenatore, entrambi medaglia di bronzo olimpica
La sera del 9 agosto 2024, Andy Díaz atterrò sulla sabbia dello Stade de France dopo tre balzi 17,64 metri dopo la zona di battuta. Terza migliore misura nel salto triplo quel giorno, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Parigi 2024. Quella rincorsa l’aveva iniziata tre anni prima, scappando dai Giochi olimpici di Tokyo e da Cuba, lì dove era nato ma non voleva più vivere. Aveva preso un aereo, era atterrato in Italia per ricostruire la sua vita, non solo la sua carriera sportiva. Serve parecchio ottimismo per lasciare qualsiasi cosa, arrivare in un paese mai visto e senza avere niente. “Sì, serve ottimismo, ma è stato ripagato, ora ho tanto, ben di più di una medaglia di bronzo”, dice al Foglio a margine del talk “I campioni si raccontano” organizzato dal Premio Internazionale Fair Play Menarini. Non è contento di quel bronzo perché “avevo le qualità per vincere, l’energia per fare meglio. Sono contento della medaglia, ma allo stesso tempo un po’ insoddisfatto. Questo mi dà la carica per fare meglio”.
Quella era la prima volta che vestiva la canotta della Nazionale italiana. Rappresentava il suo nuovo paese, quello che lo ha accolto e l’ha ricostruito. “Non mi sono mai pentito della scelta. E’ stata rischiosa, ma è andata bene. Quando me ne andai da Tokyo e salii su un aereo non avevo certezze, solo la speranza che il domani potesse essere migliore. Uno però il domani deve fare in modo di costruirselo”. Andy Díaz il futuro se l’è costruito nonostante tutto, soprattutto nonostante le persone che gli erano state accanto nella Nazionale di Cuba. “Per loro ero quello scarso. Io invece credevo di non essere così scarso”. Per questo è scappato dallo scetticismo per cercare di trovare il suo posto nel mondo. L’umanità è in continuo movimento da sempre e a volte quello che ti hanno insegnato a chiamare casa, casa non lo è davvero. “Ho rischiato. Ho chiesto aiuto, qualcuno mi ha aiutato nonostante non fosse obbligato a farlo”.
Quel qualcuno è Fabrizio Donato, il più forte triplista della storia del salto triplo italiano. Uno che è diventato allenatore ma che vorrebbe ancora essere in pedana. Ha accolto Andy Díaz a casa sua, lo ha aiutato con i documenti, poi lo ha aiutato come atleta. “Andy è bravo non solo come atleta, anche come allievo. Fa quello che facevo io con Roberto Pericoli, l’uomo che per ventun anni mi ha allenato e che ha contribuito a essere la persona che sono: ‘Tu mi dici quello che devo fare e io lo faccio’, mi dice sempre”.
“Fabrizio mi ha cambiato come atleta, mi ha rivoluzionato”, spiega Andy Díaz. “Prima mi capitava di mollare, di non essere concentrato, sottovalutavo la corsa. Ora non più. Mi ha fatto capire quello che sono, quello che è importante fare e ora il mio punto di forza è diventata proprio la velocità”.
Fabrizio Donato ascolta, prova a capire chi ha davanti, trova il modo di parlare ai suoi atleti, fa capire loro che l’unica cosa che conta davvero è capire che “tra allenatore e atleta deve esserci un rapporto basato su fiducia, rispetto e libertà. Molto spesso noi allenatore li chiamiamo ‘i nostri atleti’. Sbagliamo. Non sono nostri. L’atleta è libero, deve essere libero. Può andare via quando vuole, può allenarsi con chi vuole. Può e deve scegliere, ma sempre con rispetto”. Quello necessario per rapportarsi con gli altri, con tutti. “Atleti e tecnici devono convivere tra la convinzione di potercela fare e la presunzione di dovercela fare. Serve trovare l’equilibrio, il rischio di perderlo è alto”. Fabrizio Donato non l’ha mai perso. Sta insegnando ad Andy Díaz a fare lo stesso.